Skip to main content

Dialogo su Papa Francesco

Benedetto Ippolito: Il magistero di papa Francesco costituisce senza dubbio un fattore di novità non solo all’interno della Chiesa cattolica, ma anche nel più generale contesto dell’opinione pubblica. Quali sono le parole-chiave del suo pontificato?

Ettore Bernabei: La più ricorrente delle parole ritenute “chiave” da papa Francesco è “misericordia”. Come tutti i vocaboli essa può avere molti signi­ficati. Nell’accezione usata dal papa, fa riferimento costante a una concezio­ne di vita antitetica all’impostazione individualista, dominante nei mezzi di comunicazione e nei rapporti interpersonali e sociali del nostro tempo. Una società in cui ha prevalso l’antica ossessione egoistica del tornaconto persona­le, che i romani sintetizzavano nella frase: homo homini lupus.

Dalla seconda metà del xx secolo a oggi quell’impostazione è presentata su linee strategiche apparentemente mutevoli, ma sempre similari, espresse con suadenti parole magiche, come: progresso, profitto, privatizzazione, globaliz­zazione, deregulation, Welfare. Tutte queste parole magiche servono da oltre trent’anni a mascherare un sistema di feroce competizione, organizzato al fine di eliminare chi si oppone al prevalere personale o di gruppo. Un sistema del genere determina una diffusa conflittualità, esaltata da tutti i mezzi di comu­nicazione, che, di fatto, si contrappone alla rivelazione cristiana, imperniata sull’amore per il prossimo.

Misericordia, dunque, vuol dire comprensione, ascolto degli altri anche davanti a manifestazioni non gradite, o sbagliate. Papa Francesco ha esempli­ficato l’attenzione che ognuno deve agli altri con tre parole che dovrebbero iniziare, sviluppare, chiudere ogni conversazione: “Scusi, permette, grazie”. Tre chiavi molto raramente usate oggi nei rapporti interpersonali. Il più delle volte nella conversazione s’interviene a voce alta, mentre l’interlocutore sta ancora parlando, senza preavviso; così come si entra nella vita altrui, senza rispetto e senza riconoscere i meriti e i pregi degli altri.

B.I. Queste considerazioni sul comportamento umano sono fondamenta­li per cogliere lo spirito di papa Francesco, fondato sull’esempio più che sulla teoria. Quanto di gesuita e quanto di francescano c’è in lui?

E.B. I gesuiti sono preparati ad ascoltare tutti; acquistano così la capacità a ricercare in tutti elementi di verità, di opportunità. Dopo aver ascoltato, valutano la persona e l’argomento trattato. A quel punto ritengono di poter assumere un atteggiamento secondo il proprio discernimento e cercando di interpretare i segni della volontà divina per realizzare un bene comune. Così si comporta papa Francesco, avendo fatto tesoro non solo del suo lungo corso di studi ignaziani, ma anche delle esperienze francescane fatte nella sua vita familiare e religiosa. Il giovane Bergoglio imparò dai suoi genitori che l’amo­re per Dio e per i poveri richiede un costante distacco dai beni terreni e un desiderio fattivo di aiutare chi ha bisogno. Nella sua missione sacerdotale ed episcopale ha affrontato difficoltà sempre crescenti per aiutare i più deboli, i più indifesi. Ha constatato che, per la prima volta nella storia dell’umanità, ci sono non soltanto individui disagiati ma enormi gruppi di persone che vivo­no nell’indigenza. Le statistiche dicono che oggi nel mondo 2/3 degli esseri umani non hanno le risorse necessarie per sopravvivere.

La povertà non è più un problema marginale e sporadico, ma così univer­sale da richiedere l’intervento urgente e incisivo di coloro che hanno respon­sabilità politiche, economiche e sociali.

B.I. Ma in fondo non è avvenuto sempre così nella storia? Voglio dire, la povertà e la miseria sono dei mali sociali che esistono da sempre, e che forse non è possibile eliminare completamente…

E.B. Non direi. Già tre o quattromila anni fa tutti gli uomini e le donne avevano a disposizione l’indispensabile per vivere. Magari solo una tenda, una caverna, un arco e delle frecce per catturare animali; in mancanza di meglio avevano le mani per raccogliere i frutti dalle piante e sopravvivere alle condizioni di allora. Duemila anni fa nella Roma di Augusto anche agli schiavi erano assicurati vitto, alloggio e certi diritti umani. Dopo la caduta dell’impero romano, gli ordini monastici della Chiesa cattolica organizzarono la coltivazione delle terre, abbandonate e ricoperte di boscaglie, affinché tutti avessero la possibilità di seminare e raccogliere il necessario per vivere. Nella grande civiltà medioevale dei Comuni la quasi totalità aveva una casa e un lavoro; solo alcuni soffrivano la miseria. Poi sono cominciate le diversificazio­ni. Qualcuno a metà del secondo millennio cominciò ad avere più vestiti, più focolari, più case. Ma i più avevano comunque un minimo per vivere.

Solo nell’età moderna, assieme alle enormi facilitazioni per la vita quo­tidiana (alimentazione, trasporti, cultura) sono aumentate le disparità nelle fruizioni del benessere. Nella seconda metà del xx secolo i nullatenenti sono diventati grandi masse. Le statistiche confermano che oggi l’1% della popola­zione detiene il 90% delle risorse della terra; sicché il 99% della popolazione mondiale si deve accontentare di dividersi il 10% delle risorse create da Dio e sviluppate dagli uomini.

Nell’ordine creato l’acqua, l’aria, la terra feconda, le risorse del sottosuolo sono a disposizione di tutti. Ma, da quando la povertà affligge una gran parte dell’umanità, il problema più drammatico è diventato come mettere a dispo­sizione di tutti energia, acqua, terra non inquinata.

B.I. Anche certe disuguaglianze, però, sono naturali…

E.B. Senza dubbio. Ciascuno può e deve avere un accesso maggiore o mi­nore ai beni disponibili, secondo le capacità e il suo impegno personale. Ma se milioni e miliardi di persone, senza loro colpa, rimangono esclusi dalla redistri­buzione delle risorse, è tutto il sistema della convivenza umana che va rivisto.

Ecco perché non basta criticare chi ha responsabilità decisionali. Tutti debbono farsi carico di contribuire al miglioramento della società in cui vi­viamo.

B.I. Anche per questo è arrivato papa Francesco?

E.B. Già…, un gesuita che ha preso il nome Francesco!

B.I. Come interpreta il linguaggio del papa?

E.B. Fondamentalmente è un linguaggio che tutti possono capire.

La sua semplicità di espressione è il frutto di molti e prolungati studi pre­cedenti, di costante attenzione al comportamento e ai bisogni degli altri. Vale a dire alla vita, nei suoi particolari e nel suo insieme: piante, animali, persone. Insomma, all’essere e al divenire dell’ordine creato. Papa Francesco, facendosi carico di quello di cui hanno bisogno gli altri, cerca di parlare in maniera che tutti capiscano. Il suo linguaggio risulta autentico perché è pensato per gli altri e con gli altri.

B.I. Come valuta il cambiamento che c’è stato nel passaggio da Benedetto xvi a Francesco?

E.B. Nelle vite dei papi ci sono aspetti eccezionali, evidenti anche per i non cattolici. Così come nello sviluppo della missione di ogni pontificato ci sono avvenimenti che gli storici non possono spiegare con valutazioni pura­mente umane. Nessun papa è uguale agli altri. Non solo perché sono persone diverse, ma perché interpretano esigenze diverse, in tempi diversi. Benedetto xvi è un professore tedesco, chiamato a Roma a vigilare sulla correttezza della dottrina e della vita degli uomini della Chiesa, anche loro deboli e fragili come tutti i loro fedeli. Francesco è nato in una famiglia italiana, emigrata in Argentina e, dopo aver compiuto il lungo corso di studi, ha vissuto a stretto contatto con la gente del Sudamerica.

B.I. Nasce lì la sua sensibilità per i poveri?

E.B. Nelle vaste zone di povertà di quel continente ha toccato con mano gli squilibri sociali del mondo attuale, di cui prima parlavamo; ha visto le de­vastazioni provocate dalle disuguaglianze economiche, in stridente contrasto con le ricchezze naturali e acquisite.

Anche dopo che i progressi tecnologici hanno reso a tutti la vita più facile, la sperequata redistribuzione delle risorse costringe una larga parte della po­polazione mondiale a vivere nell’indigenza. Contemporaneamente crescono tante malattie per eccesso di alimentazione.

Di fronte a questa nuova drammatica situazione papa Francesco chiede che si faccia qualcosa che non si è fatto sin qui. Già Benedetto xvi aveva se­gnalato le strategie necessarie. Papa Bergoglio – con l’esperienza personale di chi ha vissuto le angustie quotidiane dei grandi agglomerati urbani sudame­ricani, dove tanti uomini e donne ormai alla terza generazione sono costretti ancora a vivere in condizioni disumane – riafferma con forza che non basta più l’assistenza. Occorrono interventi politici ed economici per cambiare gli assetti sociali.

B.I. Quali sono gli elementi di forza di questo pontificato?

E.B. Di certo la scelta a favore dei poveri. Per questa scelta la maggioranza della gente di ogni parte del mondo ha sentito il bisogno di esprimergli il suo consenso. Anche chi non ha una visione religiosa della vita si rende conto della necessità di trasformare i Paesi della fame, della miseria endemica, della disoccupazione che rasenta la metà della popolazione, in zone dove sia possi­bile vivere senza desiderare di assaltare i Paesi del benessere dell’Europa e del nord America.

B.I. Secondo Lei è positivo il dialogo di Francesco con gli intellettuali di parte laica, ad esempio Eugenio Scalfari?

E.B. Credo che sia coerente per un cristiano, particolarmente per un papa, parlare con tutti, senza discriminazioni di sorta, senza paura di chi ha idee diverse dalle proprie.

Molti cattolici, anche in tempi recenti, hanno avuto poco coraggio nel professare le proprie idee, anche se applaudivano, senza cooperare fattiva­mente con papi coraggiosi come Giovanni xxiii e Giovanni Paolo ii. Altri hanno affrontato il dialogo con i “diversi”, senza sottrarsi alla tentazione di sentirsi nel giusto e di considerare l’altro dalla parte sbagliata. Se siamo con­vinti che Dio fa sorgere il sole e arrivare l’acqua a tutti, allora bisogna anche parlare con tutti…

B.I. Ma non le sembra troppo semplice…

E.B. Non lo ritengo né semplice né semplicistico per esperienza di vita. Io ho avuto maestri molto saggi, che mi hanno formato nell’ambiente cat­tolico. Il mio parroco, don Raffaele Benzi, il mio vescovo, il cardinale Elia Dalla Costa, in anni difficili del secolo scorso, mi hanno abituato ad ascoltare tutti e a leggere anche i libri di autori che la pensano diversamente da me. Loro non trovarono inopportuno o sbagliato che io accettassi il mio primo lavoro di giornalista in un giornale quotidiano che aveva ben cinque direttori e cinque “spicchi” di redazione politica: uno per la Dc, uno per il Pci e uno rispettivamente per il partito d’Azione, socialista e liberale. I miei colleghi in redazione erano lo scrittore comunista Romano Bilenchi (redattore capo), il socialista Giovanni Pieraccini (più volte ministro negli anni ‘50 e ‘60), gli azionisti Carlo Cassola e Manlio Cancogni (tutti e due scrittori di narrativa e saggistica), i liberali Hombert Bianchi e Sergio Lepri (di diverse tendenze idealiste). Tra noi parlavamo con schietta amicizia, ognuno dalle proprie po­sizioni culturali, cercando i possibili punti di contatto e rispettando le rispet­tive convinzioni. Quando da quel giornale pentapartito nacquero due testate – una di area socialcomunista e una di area cattolica – i due liberali e i due azionisti vennero con me nell’organo fiancheggiatore della Dc.

Per tornare al dialogo di papa Francesco con i laici vorrei sperare che qual­che laico, sincero difensore della libertà, si facesse difensore anche dei diritti e delle libertà dei cattolici, dopo che, come è successo di recente, rappresentanti dell’Onu (distorcendo la realtà storica) hanno attaccato la Chiesa di Roma per non aver condannato i preti pedofili e hanno tentato di dettarle linee di comportamento antitetiche alle sue convinzioni. Sarebbe un segno di grande civiltà se Eugenio Scalfari o qualcuno dei suoi discepoli difendesse la libertà e il diritto delle Confessioni cattolica, ebraica e islamica di credere e di pro­clamare che il matrimonio è quello dell’unione tra un uomo e una donna, finalizzata alla procreazione e ad assicurare la continuità della specie umana.

B.I. Questi fatti e queste considerazioni sono veramente molto interessan­ti e ci portano a considerare più specificatamente la situazione italiana. Quale effetto potrà avere, secondo Lei, l’insegnamento del papa in un Paese sfibrato dalla crisi come il nostro?

E.B. L’Italia è sfibrata dalla crisi, ma anche da qualcosa che è avvenuto – per organizzazione esterna – prima della crisi finanziaria, imperversante dal 2007. All’inizio degli anni ‘60 l’Italia conquistò il quarto posto tra i sette Paesi più industrializzati del mondo. Raggiunse quel significativo successo grazie al lavoro di tutti coloro che, senza distinzioni politiche, accettarono e cooperarono all’attuazione del modello di sviluppo proposto dai cattolici. Fu merito di De Gasperi affidarne la realizzazione a giovani che avevano studiato i problemi economici e sociali del Paese, (Dossetti, La Pira, Fanfani) per rea­lizzare un nuovo sistema economico e sociale, che evitasse quelle devianze che avevano portato i Paesi sviluppati alla crisi del 1929.

Con il lavoro e l’impegno di tutti, negli anni ‘50, l’Italia ricostruì quanto era stato distrutto dalla guerra, e organizzò un sistema di economia mista in cui le aziende pubbliche, a partecipazione statale, fornivano alle aziende private: energia, semilavorati e servizi a bassissimo costo, in modo da per­mettere a tutto il Paese – privo di materie prime e tecnologie avanzate – di porsi sui mercati in condizioni simili a quelle dei grandi concorrenti europei e americani…

B.I. Si tratta di un modello ancora valido, secondo Lei?

E.B. Penso proprio di sì. Anche perché, rispetto ad altri esperimenti eco­nomici e sociali, fatti in passato dai cattolici, quell’esperimento diede risultati positivi e durevoli per il progresso economico e la pacifica convivenza.

B.I. In quel momento, in effetti, fu fatto un grande lavoro dai cattolici per attuare la dottrina sociale della Chiesa in una società complessa e disastrata come quella italiana del 1945.

E.B. L’Italia, uscita perdente dalla Seconda guerra mondiale, arrivò ad avere un benessere mai avuto da secoli: un benessere equamente distribuito che contemporaneamente garantiva a tutti libertà personali e di gruppo.

Purtroppo, quello che fu chiamato il miracolo italiano provocò, specialmen­te fuori dai confini nazionali, sospetti, risentimenti e gelosie. Alcune imprevedi­bili trasversalità organizzarono vari tipi di aggressione all’assetto interno dell’I­talia: dalla contestazione studentesca e operaistica al terrorismo, dalla grande mafia al giustizialismo, fino allo sfacelo delle privatizzazioni. Così, l’Italia è stata privata delle sue capacità di sviluppo e ridotta nelle condizioni attuali di un mercato senza difese, dove tutti possono fare shopping a condizioni di favore.

B.I. E domani?

E.B. Ovviamente il modello di sviluppo del miracolo italiano è ripeti­bile con un’aggiornata organizzazione statuale ed economica. Naturalmente occorre l’impegno di tutti per produrre nuova ricchezza, difendendo innan­zitutto i legittimi interessi dell’Italia e rispettando quelli legittimi degli altri.

B.I. Torniamo un momento su papa Francesco: come s’inserisce il suo messaggio sulla povertà nella storia e nella tradizione cattolica italiana?

E.B. Non è un caso che gli ultimi predecessori di Francesco – Giovanni xxiii, Paolo vi, Giovanni Paolo ii e Benedetto xvi – abbiano richiamato i cattolici a impegnarsi nella vita pubblica per il bene comune. Ora è venuto il momento anche per i cattolici italiani di mettere in atto quei richiami, con la volontà fattiva di coadiuvare gli sforzi di papa Francesco per ridare dignità e benessere ai diseredati e agli emarginati.

Per fare questo occorrono nuove energie nella politica, nella cultura, nell’imprenditoria. Ma ci vuole anche l’apporto di tutti gli uomini e le donne decisi a vivere non solo per se stessi.

B.I. E come?

E.B. Bisogna cominciare dal basso, nella vita di ogni giorno a fare piccole cose per il bene comune. Nelle famiglie i genitori devono tornare a prendersi la responsabilità e la fatica di esercitare la propria autorità; rispettando la li­bertà dei figli, che sono creature di Dio e non proprietà personali da difendere con le unghie e con i denti; insegnando ai figli le tre parole-chiave: “scusi, permette, grazie”; abituando i figli a riconoscere le proprie responsabilità e a non giustificarsi dei propri errori attribuendoli alle colpe degli altri.

Ettore Bernabei, Fondatore e presidente onorario della Lux Vide. Già direttore generale della Rai

Benedetto Ippolito, Docente di Storia della filosofia presso l’Università di Roma Tre

Articolo contenuto nell’allegato del numero di marzo della rivista Formiche dal titolo “E venne Francesco”.

f90_ALLEGATO_cover


CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter