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La vera lezione del congresso Ppe a Dublino

A differenza della kermesse romana del Pse, dove Martin Schulz venne proclamato candidato alla guida della commissione europea manco fosse l’ultimo erede dell’imperatore prussiano, al congresso di Dublino del Ppe si è votato. Si è discusso del presente e del futuro dell’Europa. Di ciò che funziona (poco e non bene); e di ciò che sarebbe opportuno iniziare a rimuovere: sul terreno economico, su quello sociale, e, soprattutto, in termini di reale europeismo. Quindi si è passati al voto, non ricorrendo all’applauso compiacente, che nasconde anche i dissensi più lievi.

Su 629 delegati votanti, ha prevalso, quale candidato alla successione di Josè Manuel Barroso, il lussemburghese Jean-Claude Juncker (ex premier del piccolo Stato alpino), ottenendo 382 suffragi. 245 voti sono andati al commissario francese Michel Barnier, due le schede bianche. Il successo di Juncker, un democristiano non vagolante, è stato possibile grazie all’appoggio della Cdu tedesca di Angela Merkel, di Forza Italia di Silvio Berlusconi e del Ncd di Angelino Alfano.

Per i motivi arcinoti, Berlusconi era un convitato di pietra. Ma la sua posizione è stata illustrata dal vicepresidente della commissione Antonio Tajani. Che, dopo aver lamentato l’ingiustizia subita dal leader di Forza Italia che aveva peraltro di recente incontrato il capo del governo e lo stesso capo dello Stato durante le consultazioni per la soluzione della crisi ministeriale italiana, ha chiesto, fra gli applausi dei congressisti, «un’Europa più politica e meno burocratica», che sia posta in grado di agire in funzione di una crescita e di uno sviluppo economico, non limitandosi a imporre sacrifici agli Stati membri. In più Tajani – in ciò sostenuto dal presidente dello schieramento centrista, Joseph Dual – ha sollevato la questione centrale della giustizia che, in alcuni paesi europei, registra un pessimo funzionamento, giudicato insopportabile dalla maggioranza dei cittadini.

La stampa italiana ha dato scarso rilievo a questa presa di posizione che, in sostanza, denunciava le limitazioni imposte al capo del più forte partito italiano aderente al Ppe. Ma ha anche quasi totalmente ignorato un passaggio, non marginale, non equivocabile e, per taluni versi, inimmaginabile, della cancelliera tedesca Merkel. La quale ha anche parlato della necessità che l’Europa riprenda a preoccuparsi della necessità di dotarsi di assetti politici più democratici e di esercitare una maggiore sovranità, temi sui quali, in verità, proprio la Germania è parsa recentemente alquanto disattenta.

Qualche nota stonata non è mancata. Causa le piccole ambizioni di qualche neofita italiano che, nei corridoi, spettegolava su Berlusconi senza preoccuparsi del danno che ricadeva sullo stesso elettorato popolare della penisola, che vede in Forza Italia una forza egemone rispetto a qualsiasi altra formazione politica italiana. Il più recente sondaggio preelettorale (8 marzo) vede, infatti, il partito di Berlusconi almeno tre volte superiore al complesso dei partiti che con esso sono destinati a coalizzarsi: sul piano nazionale, ma anche su quello europeo, se vogliono avere un ruolo attivo nel futuro parlamento bruxellese.

In questo senso, del resto, si è pronunciato Pier Ferdinando Casini, la cui storia personale è fra l’altro parte integrante del Ppe e dell’Internazionale democristiana. Gli altri «piccoli» italiani, specie se accreditati dello 0,04 per cento, dovrebbero trarre da lui insegnamento e non perdersi in basse manovrette controproducenti. Proprio la loro condizione estremamente minoritaria dovrebbe sollecitarli al massimo di impegno politico propositivo: utilizzando la campagna elettorale per presentare qualche candidato giovane in più, idee più fresche sull’Europa di domani, attivismo concreto per conquistare nuovi voti al popolarismo italiano ed europeo.


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