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L’importanza di chiamarsi Mario (Palmaro)

 

Avrei voluto scrivere un post su Mario Palmaro, morto 2 giorni fa. Oggi ci sarà il funerale, ma alcune volte sopraggiunge il retto dàimon della ragionevolezza e della pertinenza e capisci che quanto scriverai sarà chiacchiera, flatus vocis, il blabla di chi “deve” scrivere, in quanto cattolico, magari contro certuni sedicenti “cattolici”, ma di vulgata tribale e spesso neovimentista, dunque zero.

No, questo non è un post. E’ una testimonianza. Documento a viva voce l’importanza di chiamarsi Mario.

Mario ha una radice bella solida: è il sacerdote che officia, origine volsco-etrusca, ed è, insieme, alla latina, l’uomo forte e gagliardo, insomma il guerriero. Mario, il Guerriero di Dio.

Ecco l’importanza di chiamarsi Mario.

Chi è guerriero e per giunta di/per Dio, quel Dio forte ed  umile e insieme retto e chiaro, deciso e virile, che ha scelto di farsi carne ed ha messo nella sua vita il percorso di miglia e miglia con noi poveri peccatori, tutti tagliagole destinati alla forca eterna, salvo la Sua misericordia in azione (quella vera, cioè ricolma di giustizia, sia chiaro, intelligenti pauca), sa che la destinazione finale è chiara e in mezzo c’è la croce. Mario di croce ne ha ingoiata tanta e con virile accettazione, non a ganasce serrate, ma con la letizia di chi sa e vuole; vuole per fare la volontà di un Altro.

E’ il mistero del cattolicesimo: tu sei tanto più io quanto più fai entrare un altro nella tua vita.

No, questo non è un post, allora. Faccio un copia incolla con coscienza mirata di una riflessione testamento di Mario, tanto basta a testimoniare e documentare l’importanza di chiamarsi Mario (Palmaro).

“La prima cosa che sconvolge della malattia è che essa si abbatte su di noi senza alcun preavviso e in un tempo che noi non decidiamo. Siamo alla mercé degli avvenimenti, e non possiamo che accettarli. La malattia grave obbliga a rendersi conto che siamo davvero mortali; anche se la morte è la cosa più certa del mondo, l’uomo moderno è portato a vivere come se non dovesse morire mai.

Con la malattia capisci per la prima volta che il tempo della vita quaggiù è un soffio, avverti tutta l’amarezza di non averne fatto quel capolavoro di santità che Dio aveva desiderato, provi una profonda nostalgia per il bene che avresti potuto fare e per il male che avresti potuto evitare. Guardi il Crocifisso e capisci che quello è il cuore della fede: senza il Sacrificio il cattolicesimo non esiste. Allora ringrazi Dio di averti fatto cattolico, un cattolico “piccolo piccolo”, un peccatore, ma che ha nella Chiesa una madre premurosa. Dunque, la malattia è un tempo di grazia, ma spesso i vizi e le miserie che ci hanno accompagnato durante la vita rimangono, o addirittura si acuiscono. È come se l’agonia fosse già iniziata, e si combattesse il destino della mia anima, perché nessuno è sicuro della propria salvezza.

D’altra parte, la malattia mi ha fatto anche scoprire una quantità impressionante di persone che mi vogliono bene e che pregano per me, di famiglie che la sera recitano il rosario con i bambini per la mia guarigione, e non ho parole per descrivere la bellezza di questa esperienza, che è un anticipo dell’amore di Dio nell’eternità. Il dolore più grande che provo è l’idea di dover lasciare questo mondo che mi piace così tanto, che è così bello anche se così tragico; dover lasciare tanti amici, i parenti; ma soprattutto di dover lasciare mia moglie e i miei figli che sono ancora in tenera età.

Alle volte mi immagino la mia casa, il mio studio vuoto, e la vita che in essa continua anche se io non ci sono più. È una scena che fa male, ma estremamente realistica: mi fa capire che sono, e sono stato, un servo inutile, e che tutti i libri che ho scritto, le conferenze, gli articoli, non sono che paglia. Ma spero nella misericordia del Signore, e nel fatto che altri raccoglieranno parte delle mie aspirazioni e delle mie battaglie, per continuare l’antico duello”.

Mario Palmaro

Chiudo con alcune parole, una selva di parole e congiunzioni di pensiero religioso e umanissimo, dell’uomo che ha segnato il mio percorso umano e cristiano, non solo nella Chiesa, ma nel mondo, don Luigi Giussani. Parole pronunciate il 23 marzo 1975, Domenica delle Palme, durante l’incontro delle associazioni e dei movimenti cattolici, a sostegno di Paolo VI; erano presenti soprattutto i diciassettemila di Comunione e Liberazione, e don Giuss non fece mancare, anche allora, la sua parola-evento, riproponendo, poi, lo stesso discorso in occasione del trentennale del Movimento, circa dieci anni dopo:

“Man mano che maturiamo, siamo a noi stessi spettacolo e, Dio lo voglia, anche agli altri. Spettacolo, cioè, di limite e di tradimento, e perciò di umiliazione, e nello stesso tempo di sicurezza inesauribile nella Grazia che ci viene Donata e rinnovata ogni mattino. Da qui viene quella baldanza ingenua che ci caratterizza, per la quale ogni giorno della nostra vita è concepito come un’offerta a Dio, perché la Chiesa esista dentro i nostri corpi e le nostre anime, attraverso la materialità della nostra esistenza.”
Luigi Giussani

“Da qui viene quella baldanza ingenua”, Mario, la tua, la mia, la nostra, fin quando non arriveremo a festeggiare – insieme – l’unica vittoria che conti, quella di Cristo, in eterno.

Sì, forse ora questo è un post. Grazie, Mario.

 



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