Io non mi arrendo. E quindi oggi, 19 marzo, leverò in alto il calice e farò gli auguri a tanti miei “colleghi”. Perché oggi, signori miei, è S. Giuseppe, festa del Papà. Lo scrivo con la p maiuscola per richiamare l’attenzione, smuovere le coscienze, sensibilizzare, insomma provare a fare qualcosa. Perché noi padri, parafrasando Giorgio Gaber, siamo sempre più una razza in via di estinzione, tanto che nella nostra opulenta ed evoluta società, ormai a stento si trovano tracce della figura paterna. Prima il ’68 e la rivolta contro il principio di autorità, poi il femminismo, e poi la premiata ditta Freud&Co, e oggi il tentativo di mandare in soffitta la famiglia cosiddetta tradizionale (ove tradizionale, manco a dirlo, suona dispregiativo), che fa tutt’uno con il dilagare del nuovo mainstream culturale: ho diritto, ergo sum. Col risultato che il padre non conta più nulla, o meglio non si vuole che conti più nulla, tutt’al più ridotto al rango di amico, in nome e per conto di una ideologia secondo cui l’uomo, fin da piccolo, ha diritto a decidere da solo come meglio vivere, a stabilire cosa è bene e cosa è male, a vivere della sua libertà in modo totalmente indipendente e autonomo da ogni riferimento valoriale che non siano i suoi desideri. In una parola: ad essere dio di se stesso.
Il paradosso è che questa antropologia, veicolata ad arte da ben precisi gruppi di pressione, nel mentre abbatte la figura paterna col piccone legislativo e imponendo nuovi modelli e costumi, rivendica allo stesso tempo il diritto alla paternità (e specularmente alla maternità), avendo negato l’inscindibile connessione tra sessualità coniugale e procreazione. In una recente intervista al Foglio l’arcivescovo di Bologna, card. Caffarra, ha colto lucidamente la questione: “…coerentemente si è passati dall’idea del figlio atteso come un dono al figlio programmato come un diritto: si dice che esiste il diritto avere un figlio. Si pensi alla recente sentenza del tribunale di Milano che ha affermato il diritto alla genitorialità, come dire il diritto ad avere una persona. Questo è incredibile. Io ho diritto ad avere delle cose, non le persone.”. E’ tutto qua il paradosso: affossano il padre ma rivendicano il diritto alla paternità. Ma di che stupirsi? Se Dio non c’è tutto è possibile, diceva Dostoevskij. “All’ascesa a Dio”, scriveva con lungimiranza il filosofo cattolico Augusto Del Noce, “si sostituisce l’idea della conquista del mondo, ovvero l’affermazione del diritto che il singolo soggetto ha sul mondo. Diritto che non ha limiti, perché, chiamato al mondo senza il suo volere, egli sente di aver diritto, quasi a compenso di questa chiamata, a una soddisfazione infinita nel mondo stesso.”.
Questa è la realtà. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. E forse non è un caso se qua e là, sia pure in netta minoranza, cominciano ad apparire sempre più analisi controcorrente, che suonano come una decisa critica, e in alcuni casi autocritica, di quell’apparato di pensiero che di fatto ha seppellito il ruolo paterno e scardinato la famiglia. Quella che un tempo era la parola d’ordine, il mitico “proibito proibire”, ora non è più così scontata. E anzi i più attenti osservatori sottolineano l’importanza di saper dire “no”, di non essere semplicemente un “amico” dei figli. Insomma, di tornare a fare il padre: magari moderno quanto si vuole, ma che è e resta il padre. Ci sarà pure un motivo se il quarto comandamento dice “Onora tuo padre e tua madre” (che non vuol dire semplicisticamente “rispetta” né “obbedisci”), aggiungendo “se vuoi essere felice e avere lunga vita sulla terra”, o no? Quello di padre è un mestiere difficilissimo, lo sa bene chi lo vive tutti i giorni, aggravato dal fatto che mentre nella donna è inscritta la maternità, la paternità non è affatto un attributo naturale dell’uomo.
Della serie: padri si diventa, non si nasce. Anche per questo ho molto apprezzato le parole del Papa, che durante l’udienza generale di oggi in piazza S. Pietro ha detto: “Chiedo per voi la grazia di essere sempre molto vicini ai vostri figli, lasciandoli crescere, ma vicini, loro hanno bisogno di voi, della vostra presenza, della vostra vicinanza, del vostro amore, siate per loro come san Giuseppe, custodi della loro crescita in età sapienza e grazia, custodi del loro cammino, educatori, camminate con loro, e da questa vicinanza siate veri educatori, grazie per tutto quello che fate con i vostri figli, grazie, a voi tanti auguri e buona festa del papà a tutti i papà che sono qui“. Sarebbe auspicabile che anche la società, in tutte le sue articolazioni, restituisse alla figura paterna autorevolezza e status, e la smettesse di considerare il padre un ente inutile o, nel migliore dei casi, un suppellettile affettivo. Ne va del futuro dei nostri figli, il che vuol dire del futuro del paese, sempre che a lor signori stia ancora a cuore. Altrimenti non lamentiamoci se molti ragazzi non hanno spina dorsale, sono fragili, capaci di suicidarsi per un brutto voto o una delusione affettiva, o di uccidere senza pietà quando non ottengono quello che vogliono perché nessuno gli ha mai spiegato come funziona il mondo. Sulla scia del mito del buon selvaggio e di una pseudo cultura in nome della quale i figli vanno cresciuti senza divieti di sorta, senza vincoli alla loro libera espressione, abbiamo cresciuto mostri di egoismo, ragazzi fragili, facilmente influenzabili e soprattutto, eternamente fanciulli. Crescere significa confrontarsi con la realtà, che spesso e volentieri è ben diversa da come uno se l’immagina. La vita è bella proprio perché in essa c’è tutto, gioia e dolore, successo e fallimento, allegria e tristezza. E prima inizia il confronto, meglio è. In questa prospettiva, il padre ha una funzione di straordinaria importanza nella famiglia, poiché agli occhi dei figli rappresenta la porta d’accesso al mondo reale, a volte larga altre volte necessariamente stretta. Ma se continua di questo passo, tra poco ci toccherà erigere un nuovo monumento dove celebrare il 19 marzo: al Padre Ignoto.