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Ecco perché questa Europa è folle

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editore pubblichiamo l’articolo di Tino Oldani apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

«L’euro è una moneta senza Stato: di questa mancanza risente». Si deve essere grati al governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, per avere detto questa semplice verità nella «lectio magistralis» che ha tenuto a Pavia. Pochi media ne hanno dato conto, e chi lo ha fatto ha cercato di caricarlo di un significato euroscettico, che non è certo una caratteristica del governatore della nostra banca centrale, da sempre europeista convinto. Il pregio di Ignazio Visco, semmai, è la franchezza. Una virtù rara tra i banchieri centrali, che gli ha consentito di condurre un’analisi ben più interessante di quella riassunta dai media. Certo, ha detto alcune ovvietà: per uscire dalla crisi economica bisogna puntare sulla ripresa e sui tagli di spesa, e non su nuove manovre, che sarebbero recessive. Ha aggiunto che sta tornando l’interesse a investire in Italia. E su questo bicchiere mezzo pieno hanno puntato i titoli dei giornali. Del tutto ignorato invece il bicchiere mezzo vuoto, ovvero quella parte della «lectio magistralis» in cui Visco analizza le cause della debolezze dell’euro senza Stato, riconducendole alla debolezza della governance politica dell’Unione europea. Ed è questa, a mio avviso, la parte più politica e interessante.

CONSEGUENZE DI UNA GOVERNANCE SENZA UNIONE

Pesando le parole, Visco ha detto: «Senza unione politica, la governance economica europea si è fondata sulle regole di bilancio e sul divieto di salvataggio tra Paesi membri; ha fatto affidamento sulla spinta del mercato unico per la convergenza economica». Provo a tradurre: visto che l’Eurozona non è uno Stato unitario, ma piuttosto un coacervo di Paesi litigiosi e diversi quanto a ricchezze nazionali e politiche fiscali, e visto che l’euro è una moneta senza uno Stato alle spalle, è toccato ai banchieri centrali farsi carico della governance economica europea, fondata sul rispetto rigoroso di alcuni parametri puramente monetari. Un rispetto che è stato imposto ai leaders politici e ai governi nazionali soprattutto con le indicazioni sempre più frequenti e cogenti della Banca centrale europea, come dovette sperimentare nell’agosto 2011 il governo Berlusconi, che fu costretto ad anticipare di un anno il pareggio di bilancio, una clausola del Fiscal Compact che in seguito è stata addirittura inserita nella Costituzione dal governo Monti.

IL RUOLO DEI BANCHIERI CENTRALI

Il ruolo di supplenza esercitato dai banchieri centrali in Europa è stato agevolato non solo dall’incapacità e dai ritardi dei governi nazionali nel varo delle riforme strutturali necessarie per rispettare i parametri del Trattato di Maastricht, ma anche da un altro aspetto, citato da Visco: «L’assenza di protocolli per la gestione delle crisi sovrane». Una lacuna che ha, di fatto, spianato la strada a un ulteriore rafforzamento delle tecnocrazie europee (Bce, banche centrali e Commissione Ue). Anche per questo, come sottolinea Visco, «la riforma della governance europea ha dovuto fare perno sul rafforzamento delle regole di bilancio e sull’introduzione di nuove procedure per il controllo degli squilibri economici». Un chiaro riferimento al Fiscal Compact, che, oltre al rispetto del limite del 3 per cento di Maastricht (fissato nel 1991), ha imposto l’obbligo di non sforare lo 0,5 per cento annuo nel deficit strutturale e manovre correttive annue pari a un ventesimo della differenza tra il debito reale e quello ottimale del 60 per cento rispetto al pil, che per l’Italia vorrebbe dire manovre da 40-50 miliardi l’anno (obbligo che Visco ha escluso, a patto che vi sia una crescita del pil del 3 per cento: campa cavallo!).

LA RESPONSABILITA’ DELLA GERMANIA

É abitudine ormai diffusa tra i commentatori attribuire alla Germania della signora Angela Merkel la responsabilità di misure tanto severe. In questo c’è un fondo di verità, perché, senza il consenso tedesco, simili norme non sarebbero mai state approvate. Ma è altrettanto evidente che i parametri monetari su cui si fonda l’Eurozona fanno parte del bagaglio culturale dei banchieri centrali, e non di quello dei leaders politici. Non stupisce quindi che questi ultimi, di fronte alla gravità della crisi economica, siano stati costretti a recitare la parte di chi deve ubbidire ai tecnocrati, con l’unica eccezione della Germania.

Quanto sia costata all’Italia questa governance tecnocratica lo rivela, sia pure con molto tatto, la stessa «lectio magistralis» quando precisa che nel 2013 il nostro debito pubblico è salito al 132,6 per cento (16 punti in più rispetto al 2009), riflettendo non solo «una brusca decelerazione dell’economia», ma anche il fatto che «vi ha contribuito per quasi 4 punti il sostegno, diretto e indiretto, che l’Italia ha fornito per il riequilibrio finanziario di Paesi dell’area euro».

C’è forse bisogno di una traduzione? Direi di no, tranne che per un dettaglio: 4 punti di pil equivalgono a 60 miliardi di euro, somma che l’Italia ha donato al resto d’Europa per superare la crisi dell’euro. Dunque, grazie a Visco, abbiamo la conferma del fatto che l’Italia non ha ricevuto aiuti finanziari, men che meno dalla Germania, ma ne ha dati in quantità non piccola. Risorse che sono state attinte dal bilancio statale. Ma come sono saltati fuori questi soldi, visto che ora non si trovano neppure 10 miliardi per i famosi 80 euro in più al mese? La risposta è ovvia: dalle tasse. Nel 2012 il governo Monti le aumentò bruscamente. Soltanto dall’Imu, ricavò 25 miliardi di gettito in più in un anno. E con una grandinata di nuove imposte trovò il resto. Da allora, passando per Letta-Saccomanni e ora per Renzi-Padoan, la governance europea funziona così: i tecnocrati e i banchieri centrali comandano, i politici e i governi nazionali ubbidiscono, e i contribuenti devono solo pagare, zitti e mosca.

I PRIMI SEGNI DI RIBELLIONE

Alla faccia della democrazia. Ecco perché c’è poco da stupirsi se ora, sotto la spinta dei movimenti euro-scettici e anti-euro, si manifestano i primi segni di ribellione a questa governance tecnocratica. E le invocazioni retoriche a favore della crescita, ignorando il credit crunch delle banche, non incantano più nessuno.


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