Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.
Dopo tredici anni di conflitti e pasticci, si sono tutti convinti sulla necessità di “riformare la riforma”, cioè di rivedere la legge costituzionale che nel 2001 modificò il titolo V della nostra Carta in senso super-regionalista. Soffiava, all’epoca, il vento federalista. Per rincorrere la devoluzione, che era la rivoluzione della Lega, da destra a sinistra il Parlamento pensò bene di trasferire molti poteri dallo Stato alle Regioni. Di dichiararne altri in condominio (“materie di legislazione concorrente”).
Perfino di stabilire il nuovo e stravagante principio che “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Significa perfino che, a dover legiferare su una materia oggi non prevista né prevedibile, non sarebbe più il Parlamento della Repubblica, ma ognuno dei ventidue parlamentini (venti regioni più le due province autonome di Trento e Bolzano) per conto proprio.
Col passare del tempo e l’intervento della Corte Costituzionale, che solo nei primi undici mesi dell’anno scorso ha bocciato il 90,1 per cento delle settantuno leggi regionali impugnate dal governo nazionale proprio per violazione della Carta, i partiti si sono resi conto che fosse necessario “riequilibrare” la squilibrata riforma, introducendo buonsenso al posto della demagogia.
Immaginare che una regione decida la politica energetica o turistica dell’Italia ciascuna nel suo pezzettino di territorio, vuol dire non sapere dove va il mondo. Alimentando, inoltre, quel cortocircuito di spesa, clientela e campanilismo che tanto male ha già fatto al nostro Paese. Per questo non un vecchio centralista, ma il giovane sindaco di Firenze ha posto la questione in modo ultimativo da palazzo Chigi: se oltre all’ordinaria legge elettorale non si cambierà anche il titolo V della Costituzione, lui, Matteo Renzi, andrà a casa. E così l’idea di ridare un senso allo Stato e un ruolo ai Comuni, che sono gli enti più antichi, amati e vicini ai cittadini, sembrava cosa fatta. Riviva l’Italia delle cento città.
Ma l’unanimità con cui è stato accolto l’appello di Renzi era sospetta. In realtà la politica sta cercando in modo trasversale di salvare il salvabile del fallimento regionalista, nonostante l’impopolarità che questa nuova casta decentrata riscuote da tempo, se soltanto si pensa che ben diciassette delle venti regioni sono sotto indagine della magistratura per l’indecenza con cui troppi consiglieri di troppe parti hanno usato il denaro pubblico. Quel “Senato delle autonomie” che avrebbe dovuto riscoprire l’Italia una e diversa, s’appresta invece e soprattutto a incoronare i governatori regionali.
E l’anacronistica distinzione legislativa e amministrativa fra le cinque e privilegiate regioni a statuto speciale e le quindici ordinarie che pedalano – il vero tabù istituzionale -, resterà intoccabile. Come se non bastasse, nell’attesa della riforma il ministero per gli Affari regionali da mesi impugna pochissime leggi regionali in nome di un malinteso autonomismo, se solo si considera, al contrario, che la Consulta fino a ieri ha dichiarato incostituzionali quasi tutte le leggi impugnate dal governo. Segno, quantomeno, che la legislazione regionale non merita l’improvviso buonismo di Stato (e non c’è pregiudizio dei giuristi: dieci anni fa a soccombere era il governo nel 62 per cento dei casi).
Sotto mentite spoglie (“riformare il titolo V”), il regionalismo uscirà paradossalmente rinvigorito, proprio nel momento in cui agli occhi dei cittadini sta dando la più infelice ed eloquente prova di sé.