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Vi spiego cosa cambierà nell’Egitto di Al Sisi

Dopo settimane di attese, il capo delle forze armate egiziane Abdel Fattah Al Sisi ha annunciato la sua candidatura alle prossime elezioni presidenziali.

Sono però molte le incognite che avvolgono l’ascesa del generale: dalle difficili condizioni economiche del Paese alle tensioni sociali, passando per la costruzione di una democrazia compiuta all’indomani della rivoluzione.

Aspetti approfonditi in una conversazione con Formiche.net da Shahira Mehrez, ricercatrice, ex docente di Arte e di Architettura islamica presso l’Università americana del Cairo e di Helwan, stilista e filantropa che da alcuni anni si occupa anche del ruolo delle donne in politica.

In Egitto si rischia una guerra civile come molti analisti sostengono?
Siamo stanchi delle interferenze occidentali che ci spingono verso l’abisso, i Fratelli Musulmani che scendono in piazza sono poche migliaia di persone. Il popolo non è diviso, per la prima volta siamo davvero uniti, sunniti, sciiti, cristiani e bahai. Che siano davvero pochi i contrari al nuovo corso lo dimostra il fatto che le manifestazioni sono sempre più concentrate in luoghi come le università. Certamente non ci sono manifestazioni popolari di massa.

L’Egitto sarà democratico o il generale Al Sisi diventerà un dittatore?
Io sono anti militarista da sempre, ma ora tifo per Al Sisi, se diventerà un dittatore saremo noi che dovremo scendere per le strade e cacciarlo. In Egitto purtroppo la maggior parte della gente è conservatrice e cerca un presidente patriarcale, ma non di certo un dittatore. Non siamo immersi in una rivoluzione permanente da due anni per tornare al punto di partenza e il generale lo sa bene. Certo è un peccato cercare un presidente forte e militare, ma è l’unica possibilità di stabilità in questo frangente. Io non vorrei un capo carismatico e avrei preferito che Al Sisi indicasse un candidato alla presidenza proveniente dalla società civile, ma penso che lui abbia paura di indicare come candidato qualcuno che poi si riveli non capace di far uscire l’Egitto da questo pantano. Morsi e Mubarak hanno venduto il Paese, ora bisogna portare avanti i valori della primavera araba, ma senza gli islamisti o l’anarchia proposta da certe fronde liberali. La gente è stanca e chiede una qualche forma di ordine.

Il generale vincerà le elezioni?
La maggioranza lo voterà, per lui sarebbe meglio rimanere un militare, vivrebbe immerso nella gloria per aver salvato il Paese, mentre come presidente, se non riuscirà a vincere la sfida, quasi impossibile, di rimettere in carreggiata l’Egitto, fra tre anni lo insulteranno per strada.
Al Sisi ha chiarito che la situazione economica dell’Egitto è drammatica, è difficile promettere se non ci sono i soldi. Non è uno stupido, è una persona molto preparata. Io da donna di sinistra non ho alcuno fiducia nell’altro candidato, Hamdeen Sabahi. Lo ho votato alle ultime presidenziali, eppure, nonostante sia vicino alla mia parte politica, non mi sembra che abbia una visione per il Paese.

Il generale dovrà ricostruire l’economia egiziana.
Sono di sinistra, ma sono anche per un settore di capitalismo nazionale, abbiamo distrutto l’industria, fabbrichiamo solo cioccolato e patatine, non abbiamo una batteria o un tessuto che sia prodotto nel Paese. Anche i comunisti hanno capito che ci vuole una economia mista, spero lo abbiano compreso i capitalisti. Serve una nuova politica industriale.
Al Sisi potrebbe essere la persona giusta, è a capo di un sistema industriale enorme come quello dell’esercito. Fabbricano di tutto, dalle televisioni fino a l’olio d’oliva, hanno ristoranti e perfino imprese di restauro. Il Wto è in parte responsabile per questo disastro, ci ha dato consigli pessimi, vorrebbe che diventassimo un Paese di servizi e con una agricoltura di lusso da esportare verso l’occidente. Una politica folle, che, non solamente non sfama gli egiziani, ma che ci rende dipendenti, da una parte dalle pessime norme dell’Unione Europea che favoriscono solamente le multinazionali, e dall’altra dall’importazione di prodotti base che non coltiviamo più. Per la Ue un giorno le fragole sono troppo piccole, l’altro troppo grosse, ogni scusa è buona per creare problemi.

Che fine hanno fatto le industrie egiziane?
Sadat e Mubarak hanno distrutto tutte le grandi imprese di stato, in primis quella del cotone, un tempo fiore all’occhiello del Paese. Hanno venduto le macchine ed i terreni. Un vero disastro. Dobbiamo ricominciare ad essere competitivi e a produrre. Il cotone è stato distrutto perché la programmazione economica ha deciso che non era più il caso di coltivarlo. Oggi importiamo perfino l’aglio dalla Cina. Nemmeno i prodotti per fare il full, piatto nazionale egiziano, sono più locali. Inoltre siamo dipendenti da sementi che non si riproducono e vanno comprate ogni anno rendendo il popolo schiavo delle multinazionali. Allah dia il coraggio ad Al Sisi di mettere mano in questo disastro.

C’è una classe dirigente che potrà aiutarlo nelle decisioni economiche?
Oggi ci sono giovani economisti nel Paese che finalmente hanno delle idee. Speriamo vengano ascoltati, fino ad ora non lo sono stati. Il dramma delle istituzioni egiziane è che sono sorde. I militari sembrano gli unici che oggi hanno la forza di cambiare.

La rivoluzione è fallita?
Non è fallita, gli egiziani sono passati dalla condizione di schiavi a persone che oggi sanno di avere dei diritti. Ma ora ci vorrà del tempo per imparare a muoversi in questo nuovo mondo. Non si costruisce una democrazia in cinque minuti.

Però molti liberali denunciano che alcuni loro compagni sono stati arrestati durante le manifestazioni.
Guardate cosa è successo in Occidente per anni durante i G8. Sono sessant’anni anni che la polizia abusa del suo potere, non diventerà santa in due giorni. In Europa è mezzo secolo che fate battaglie contro gli abusi delle forze dell’ordine e del potere e per chiedere maggiori diritti civili, ma siete comunque delle democrazie, ci vorrà del tempo anche per noi. Ci vogliono anni per ottenere dai genitori le libertà personali, figuriamoci da uno stato.

Gli articoli della nuova costituzione che riguardano le manifestazioni sono stati molto criticati.
E’ pura ipocrisia, la legge egiziana è identica a quella delle democrazie occidentali. Me la prendo tutti i giorni con gli europei che utilizzano standard diversi a seconda delle convenienze. La legge prevede semplicemente che si debba comunicare il giorno della manifestazione e dare i documenti degli organizzatori. Il prefetto può dire di no per motivi di sicurezza e gli organizzatori possono far ricorso. E comunque c’è in ogni città una piazza dove si può manifestare sempre senza alcun preavviso. Chi è stato arrestato per qualche giorno è perché è sceso in piazza senza attenersi a questa legge.

Molte volte le leggi sulla carta sono buone, ma poi non vengono rispettate. Non vi è un rischio di abusi?
Questo è possibile, ma come dicevo ci vorrà del tempo per educare le istituzioni egiziane al rispetto delle regole. Per anni, per esempio, la polizia e l’esercito si sono fatti la guerra e lo Stato era un serpente dalla due teste. Il capo della polizia è stato nominato da Morsi, ma poi ha sostenuto i militari quando l’ex governo è stato deposto dopo le gigantesche manifestazioni di popolo contro i Fratelli Musulmani. Al Sisi lo ha quindi confermato, l’antica diffidenza è stata superata, ma ci sono ancora attriti molto profondi.

La magistratura egiziana ha condannato a morte 529 Fratelli Musulmani per aver partecipato a una manifestazione in cui sono stati uccisi due poliziotti e causati danni a proprietà private ad agosto di quest’anno. Al di là dei giudizi morali sulla pena di morte, una sentenza del genere non rischia di aprire una ferita insanabile nel Paese?
Personalmente sono contraria alla pena di morte nei casi dei crimini commessi dai singoli perché credo nella possibilità di redimersi, ma qui si parla di un tentativo di distruggere lo stato e la cosa è diversa. I militanti hanno partecipato all’uccisione dei poliziotti, hanno impedito i soccorsi, hanno tentato di sovvertire le istituzioni opponendosi a una rivoluzione di popolo contro il governo di Morsi. Comunque l’ultima parola, ironicamente, non sarà del tribunale, ma del muftì di Al Azhar che dovrà confermare o no la decisione dei giudici. Sarà quindi la massima autorità religiosa a giudicare se questi militanti islamisti debbano essere condannati a morte o no.


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