“Simone dorme, Pietro veglia”. Queste le parole dell’allora cardinale Montini, futuro Paolo VI, alla notizia della morte di Pio XII. Parole che esprimono tutto il mistero, la grandezza e l’umanità del servizio petrino. Parole che mi sono tornate in mente in questi giorni, per i motivi che dirò a breve, pensando all’ormai prossima canonizzazione di Giovanni Paolo II (di Giovanni XXIII non ho titolo a parlare perché quando è morto neanche ero nato). L’evento, come è facile prevedere, sarà anche l’occasione per tornare a riflettere su questa straordinaria figura che si staglia tra i giganti del XX secolo. Come molti miei coetanei, il pontificato di Giovanni Paolo II ha coinciso con gli anni della mia giovinezza. Ero a Roma, appena tredicenne, in occasione del Giubileo straordinario del 1984. Ci tornai l’anno dopo, la Domenica delle Palme, per la prima Giornata Mondiale della Gioventù, e da allora sono stato, come si dice, un “papa boy”. Anche oggi, che di anni ne ho quarantasei, sposato da quasi dieci e con due figli, mi sento ancora parte dei tanti milioni di giovani che hanno seguito in giro per il mondo papa Wojtyla. Solo ora mi rendo conto del privilegio che ho avuto, anzi meglio, della “grazia” che mi è stata concessa, di poter vivere quella che a ragione viene definita la parte migliore della vita di un uomo sotto il suo pontificato. Le parole, gli scritti, ma soprattutto la testimonianza di questo papa – che ora andrà ad aggiungersi alla schiera dei santi dopo che lui stesso ne ha proclamati più di tutti i suoi predecessori messi assieme – resteranno pietre miliari nel mio cammino, di cristiano e di uomo. Indubbiamente la figura e l’opera di Giovanni Paolo II si prestano a molteplici letture. Per quanto mi riguarda, tre sono gli aspetti che vorrei sottolineare. Il primo, la sua capacità – il termine è improprio, ma non trovo di meglio – di incarnare in pieno l’essenza della missione petrina, cioè il fatto di “confermare i fratelli nella fede”. Ecco, per me il papa polacco è stato davvero una “roccia”, un punto di riferimento sicuro, una parola vera in mezzo alle tante, troppe opinioni che quotidianamente ci stordiscono. E questo vale anche nei confronti di certi discorsi che si sentono, lo dico con molta amarezza, dentro la chiesa stessa. Nel magistero di Giovanni Paolo II ho potuto trovare la Tradizione viva della chiesa, declinata con una sensibilità ed un linguaggio moderni. E soprattutto – e questo è il secondo aspetto – centrata sui reali bisogni dell’uomo contemporaneo. La chiesa di Giovanni Paolo II è stata una chiesa in cui non mi sono mai sentito uno tra tanti, confuso nella moltitudine anonima del “popolo dei credenti”. Al contrario, ho pian piano maturato la consapevolezza che l’annuncio cristiano, la Buona Notizia, fosse innanzitutto per me, per la mia vita, cosciente di essere una persona unica e irripetibile. Di questo, di questa preminente “centralità” di ogni uomo, donna, vecchio o bambino, ciascuno con la sua storia, Giovanni Paolo II è stato sicuramente uno strenuo sostenitore e un vero araldo. Nel chiuso della mia stanza o in mezzo ad una folla oceanica, sempre ho sentito la parola del papa come la parola di un uomo che aveva cura di me, del mio futuro, della mia salvezza. C’è poi il terzo aspetto, e qui torno alla frase di Paolo VI. Sono fermamente convinto che tra i tanti benefici che i santi, a maggior ragione quando si tratta di pontefici, recano alla chiesa, vi sia appunto quello del vegliare, cioè di continuare ad operare in modo invisibile ma non per questo meno efficace, perché la barca di Cristo resti salda e proceda sicura lungo la sua rotta pur dovendo a volte attraversare mari tempestosi. E se guardo a questi nove anni ormai trascorsi dalla dipartita di Giovanni Paolo II, al drammatico pontificato di Benedetto XVI conclusosi con l’abdicazione, e a questo scorcio di pontificato di Papa Bergoglio, la sensazione che il papa polacco abbia continuato e continui tutt’ora a vegliare sulla chiesa che ha guidato per quasi tre decenni è piuttosto netta. Perché al di là delle differenze di stile e di approccio, che pure ci sono com’è giusto che sia, è evidente il fil rouge che lega i tre pontificati, con buona pace di chi non perde occasione per parlare in modo strumentale di discontinuità. Fil rouge che consiste nel comune riferimento al Vaticano II come orizzonte prospettico, e al tentativo di portare il Vaticano II nella vita della chiesa. Nella consapevolezza che alla crisi di fede che ha investito la chiesa in questi ultimi decenni ed alla quale si assiste tutt’ora, non serve fare marcia indietro, come vagheggiano i nostalgici dei (presunti) bei tempi andati della chiesa tridentina, ma riprendere le fila del Vaticano II, quello vero. E proprio a ridosso degli anni del concilio, era il 1972, l’allora cardinale di Cracovia e futuro pontefice, Karol Wojtyla, scrisse un’opera ancora oggi straordinariamente attuale. Il volume s’intitola “Alle fonti del rinnovamento”, e per sua stessa ammissione è una di vademecum con cui Wojtyla intendeva illustrare ai fedeli della sua diocesi i frutti dell’insegnamento conciliare. Cardine dell’analisi, la categoria di “arricchimento della fede”, intesa come “partecipazione sempre più piena alla verità divina”, quale postulato fondamentale dell’attuazione del Vaticano II che Wojtyla identifica con il rinnovamento conciliare, a sua volta inteso come una tappa storica dell’autorealizzazione della chiesa. Attuare il Vaticano II vuol dire, in tale ottica, tradurre in atteggiamenti concreti quello che il concilio ha detto, cioè vivere in prima persona quell’arricchimento sia come approfondimento dei contenuti della fede sia come arricchimento della vita del credente, in senso cioè soggettivo, umano, esistenziale. Ma questo implica accompagnare l’attuazione del Concilio con rinnovato slancio missionario, ponendo al centro e prima di ogni pastorale “a tema” l’annuncio del Vangelo. Che è esattamente la cifra del pontificato giovanpaolino, caratterizzato da quella nuova evangelizzazione lanciata nel 1985 e per la quale si spese in prima persona fino all’ultimo giorno della sua vita terrena, proseguita poi con Benedetto XVI ed ora con papa Francesco il cui “programma” è già tutto nella sua prima esortazione apostolica, la Evangelii Gaudium: “accordare” le verità di sempre sulla lunghezza d’onda degli uomini di questo tempo. Che significa poi assumere l’atteggiamento che Dio stesso, nella persona di Gesù di Nazareth, ha avuto nei confronti dell’uomo, riassunto in queste parole che per un cattolico sono, o dovrebbero essere, il miglior antidoto contro ogni ideologia, inclusa quella religiosa: “Non è l’uomo per il Sabato, ma il Sabato per l’uomo”. Tradotto: non è l’uomo per la dottrina, ma la dottrina per l’uomo; non è l’uomo per la liturgia, ma la liturgia per l’uomo; non è l’uomo per la fede, ma la fede per l’uomo. E infine: non è l’uomo per Cristo, ma Cristo per l’uomo. Se la fede non ha a che fare con la persona tutta intera, con la sua esistenza concreta e storica, qui ed ora, e si riduce a conoscenza e culto svincolati dalla vita vera, quindi dall’esperienza, è ben poca cosa.
“Santo subito”. Karol Wojtyla, il papa del Vaticano II
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