Domenico Mennitti, scomparso all’alba del 6 aprile a Brindisi dopo una lunga malattia, era un galantuomo, un politico onesto e capace, un infaticabile organizzatore culturale. Nonché una delle poche teste pensanti della destra italiana (postfascista e berlusconiana) degli ultimi trent’anni. Originario di Termoli, dove era nato nel 1939, aveva cominciato la sua attività politica nelle fila del Msi. Divenne deputato nel 1979 e durò nella carica sino al 1991, quando si dimise (fatto per l’epoca considerato inconcepibile dai suoi colleghi parlamentari) dopo aver perso la battaglia congressuale per diventare segretario del partito della fiamma e, soprattutto, la speranza di farne qualcosa di diverso da una formazione destinata per scelta alla marginalità e all’nsignificanza.
Mennitti veniva da una regione, la Puglia, dove la destra ha sempre avuto un tratto pragmatico e moderato. Questo spiega perché nel suo modo di ragionare e fare politica non abbia mai avuto nulla dell’estremista o del nostalgico. Era un uomo del confronto, non dello scontro ideologico. Non amava i ghetti, preferiva la contaminazione. Nel 1985 aveva fondato una rivista, “Proposta”, durata sino al 1991, che per prima aprì il mondo politico-culturale missino al dialogo con altre forze politiche, dai liberali ai socialisti craxiani e che fu una palestra di energie, da Mauro Mazza ad Adolfo Urso, da Pietrangelo Buttafuoco a Marcello Veneziani.
Lasciata la politica attiva, si aprì per lui una nuova stagione all’insegna di una passione giovanile mai sopita, quella per il giornalismo. Divenne direttore a Napoli di una testata gloriosa, il “Roma”, che guidò per un biennio: fu l’occasione per riprendere il suo impegno meridionalistico, tema al quale nella sua vita ha dedicato iniziative politiche, articoli e libri. Nel frattempo aveva cominciato a frequentare il mondo berlusconiano: le convention aziendali di Publitalia, i seminari politici che Dell’Utri organizzava per il Cavaliere e i suoi manager. Fu per questa ragione tra gli artefici della discesa in campo di Berlusconi e della vittoria elettorale del 1994. Fu il primo coordinatore nazionale di Forza Italia, ma pur avendo nelle sue mani le liste elettorali non si candidò, per evitare l’accusa da parte dei suoi antichi sodali di opportunismo o tradimento.
Defenestrato dopo pochi mesi dalla guida del partito (la sua colpa fu quella di considerare Berlusconi un leader politico, non un capo o un datore di lavoro) sì lanciò in una nuova avventura editoriale. Mentre cadeva, nel dicembre 1994, il primo governo Berlusconi nasceva il bimestrale “Ideazione”, divenuto poi anche una fondazione culturale e una casa editrice. L’iniziativa durò dieci anni e fu per molti versi unica. In quel laboratorio – dove si sono formati e hanno operato in tanti: da Gaetano Quagliariello a Sofia Ventura, da Eugenia Roccella a Giovanni Orsina, da Maurizio Molinari a Pierluigi e Barbara Mennitti, da Vittorio Macioce a Angelo Mellone – si cercò di dare corpo culturale organico al centrodestra e alle sue molte anime. Si tentò una sintesi originale tra diverse tradizioni ideologiche: dal conservatorismo al liberalismo, dal pensiero nazionale a quello libertario, dal moderatismo cattolico al riformismo laico. Tante idee e suggestioni, nonché convegni, libri, seminari, progetti di ricerca, dibattiti.
Ma il mondo politico che gravitava intorno a Berlusconi pensava che si trattasse di un gioco intellettuale destinato a non produrre consensi elettorali. Venne ben presto, dopo la grande illusione della “rivoluzione liberale” e la scocciatura di dover prestare ascolto a dei noiosi professori, la stagione delle veline in politica, dei portaborse e dei cortigiani.