Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Alessandra Nucci apparsa su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
Indovinate a quando risale la seguente allerta: «L’Oceano Artico si sta scaldando, gli iceberg stanno scomparendo e in alcuni punti l’acqua è diventata troppo calda per le foche. Le informazioni che arrivano dai pescatori, dai cacciatori di foche e dagli esploratori indicano tutti che è in atto un cambiamento radicale del clima e si stanno raggiungendo temperature mai viste nella zona artica.
Le spedizioni esplorative riferiscono che il terreno è quasi privo di ghiaccio fino a 81 gradi a nord. Si prevede che entro pochi anni lo scioglimento dei ghiacci alzerà il livello dei mari rendendo inagibile la maggior parte delle città costiere».
Indovinato? È un allarme di 92 anni fa, pubblicato sul Washington Post del 2 novembre 1922. Come si può notare, siamo ancora qua, le città costiere sono ancora abitate, le isole non si sono dovute attrezzare di palafitte, e chi nonostante tutto continua a fidarsi dei proclami sulla scomparsa del ghiaccio rischia di finire male. Come la ventina di yacht partiti l’estate scorsa alla volta del famoso passaggio a nordovest, convinte di poterlo percorrere come qualunque mare d’estate, dall’Atlantico al Pacifico: sono rimaste tutte incastrate, in attesa di essere liberate dalle navi rompighiaccio della guardia costiera canadese. Non è andata meglio ai quattro giovani rematori partiti dal lato Pacifico, convinti di poterlo risalire da ovest a est. Si sono fermati a metà strada, prima di finire assiderati. Il bello è che il loro sogno era di dare visibilità alla realtà del cambiamento climatico.
Ma come dar loro torto, visto che nel 2007 l’autorevolissima Bbc aveva comunicato che il riscaldamento globale avrebbe sciolto completamente il ghiaccio del Mare Artico nel giro di sei anni? Talmente sballate erano tali previsioni, basate sul famoso rapporto dell’agenzia dell’Onu per il clima, l’Ipcc (il cui capo aveva intimato: «Se non ci saranno dei provvedimenti prima del 2012, sarà troppo tardi»), che nel settembre 2013 la calotta polare risultava cresciuta di un +60% da record, ovvero di un milione di miglia quadrate di ghiaccio in più rispetto all’anno prima.
Il repertorio di previsioni fallite dovrebbe ormai bastare per convincere le autorità, e soprattutto gli esperti di comunicazione, a trattare gli annunci di catastrofi con le molle. Newsweek, nell’aprile 1975, prevedeva un raffreddamento globale, avvisando che «più si attardano i pianificatori, più difficile troveranno il dover fare i conti con il cambiamento climatico una volta che gli effetti saranno diventati una dura realtà». Noel Brown, dell’Unep, United Nations Environment Program, nel luglio 1989 annunciava invece che «se entro il 2000 non si inverte il trend del riscaldamento globale, interi paesi possono essere spazzati via dalla faccia della Terra a causa dell’alzarsi dei livelli del mare».
Non succede ancora niente? Basta continuare a spostare la bandierina avanti di qualche anno. Nel gennaio 2009 l’esperto James Hansen, capo del Goddard Institute of Space Studies della Nasa, oggi in pensione, dichiarava che il presidente Obama aveva «solo quattro anni di tempo per salvare la Terra». Più prudente Al Gore, che nel 2006 aveva dato al mondo ben dieci anni per risolvere questo problema del riscaldamento globale. Coraggio, dunque: per Gore, al diluvio, mancano ancora due anni.
In realtà, trattandosi di clima e non di meteo, i trend si possono studiare solo sui lunghi periodi. Da questi emerge che i livelli del mare stanno aumentando fin dal 1850, l’epoca della fine della Piccola era glaciale, mentre le temperature sono ferme da 17 anni. L’umanità si rilassi e si organizzi, dunque, come ha sempre fatto. Anche perché CO2, temperature e pioggia in aumento beneficiano l’agricoltura e riducono i costi del riscaldamento e dei trasporti, mentre l’allarmismo è indispensabile, sì, ma per l’economia che tassa, regolamenta e mira a consolidare i profitti del mercato delle emissioni, obbligando gli stati e le imprese a indebitarsi per comprare l’aria che tira.