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Berlusconi, Schulz e i barbari

Schulz, Schröder, spd

La furibonda, e non poco spudorata, polemica di alcune personalità socialdemocratiche europee a sostegno del vittimismo del loro candidato alla presidenza dell’Unione europea Martin Schulz, che si sente vilipeso da alcune parascherzose dichiarazioni di Silvio Berlusconi, mi ha fatto tornare in mente un ricordo personale giovanile.

Frequentavo il primo liceo classico a Volterra, città toscana antifascista, coi comunisti che rasentavano l’80 per cento dei consensi e guidavano una giunta comunale di sinistra. Correva l’anno scolastico 1946-1947. L’insegnante di latino e greco ci diede da studiare il testo di un grande storico romano, Tacito, dal titolo corrente Germania, alle origini indicato invece come De origine et situ Germanorum. Scritto ovviamente in lingua latina, era un volumetto agile, con una scrittura essenziale, priva di fronzoli; soprattutto un libretto stimolante perché invogliava a cercare di comprendere come, al loro tempo, vivessero i Germani: che i Romani consideravano barbari. Tacito quel saggio lo aveva scritto nel 98 d.C., avendo avuto – lui intellettuale politico oltre che maestro di storia – incarichi di governo nella Germania romana e nella Gallia Belgica e, quindi, avendo potuto raccogliere di persona informazioni su quei popoli di solito nomadi e bellicosi, che si trascinavano dietro le proprie donne nelle loro imprese di conquista.

Volterra aveva da poco vissuto la propria esperienza partigiana, nella quale era dominante il peso dei comunisti e dei commissari politici del Pci imposti su posizioni settarie. Uno di questi, detto «il pretino», era palesemente un prete spretato. Ma nella guerra civile c’erano stati anche partigiani anticomunisti: come una famiglia numerosa di librai cattolici o come alcuni intellettuali laici. Uno di questi ultimi si chiamava Carlo Cassola, era sposato con la bella figlia del farmacista, trascorreva le sue giornate riflettendo seriamente sui fatti della resistenza. Più avanti avrebbe pubblicato La ragazza di Bube, una storia d’amore fra giovani alla macchia, nella quale, però, l’autore non mancava di condannare certi eccessi dei partigiani rossi, non meno efferati di quelli perpetrati dagli occupanti tedeschi nel circondario volterrano e nella non lontana S. Anna di Stazzema.

Cassola viveva quasi isolato nel suo studio, ma ogni pomeriggio, mentre nel corso cittadino i giovani facevano il loro struscio, un rito da non disertare, andava a sedersi nella farmacia, dove, da dietro una vetrata, osservava con occhi rivolti all’infinito quell’andirivieni di ragazzi che non avevano avuto l’età per darsi al cecchinaggio antitedesco. Rammento d’avere scambiato con lui, ignorato dai comunisti, invidiosi della sua popolarità letteraria nazionale, qualche considerazione sui tedeschi come popolo, e non solo come soldati. Pensavo di essermi fatta un’idea della Germania antica attraverso lo studio delle pagine di Tacito.

Cassola mi suggeriva di non trascurare la storia più recente. Mi spiegò un concetto – molto più tardi da me ripescato in un giudizio dello storico repubblicano Giuseppe Galasso, cultore di Tacito -, secondo il quale sin dal Settecento avevano principiato ad avere corso le ideologie sulla pura razza, sulla razza superiore, nonché l’inarrestabile nazionalismo e l’imperialismo germanico, nel Novecento sfociati nel Terzo Reich e nell’Olocausto antiebraico: ma anche volto allo sterminio di zingari, non ariani, menomati e deformi d’ogni tipo, omosex, malgrado l’omo¬sessualità fosse diffusa proprio nelle gerarchie delle camicie brune.

Imparai che occorre evitare sempre i luoghi comuni; non dare credito agli ideologismi; non farsi distrarre da storici settari abituati a descrivere ciò che loro conviene, non la verità dei fatti e le loro cause; nonché a non considerare un popolo come qualcosa di unitario nel bene e nel male e a tenere sempre presente che un coro è formato da più voci diverse. Tacito l’aveva compreso e insegnato ai suoi contemporanei e ai posteri. Talvolta fra i socialdemocratici germanici di oggi (i cui nonni nazisti si chiamavano nazionalsocialisti e da Stalin venivano bollati come socialfascisti) si mostra scarsa confidenza col pluralismo politico e democratico; e si pretendono sanzioni illiberali verso avversari e critici. Barbarismi!



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