Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Paolo Savona apparsa su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
Che l’euro sia una moneta mal costruita, ancorché ben gestita nei limiti della sua malformazione istituzionale, è ormai opinione condivisa. Solo i mitomani dell’euro, una patetica minoranza che purtroppo governa le sorti del paese, continuano a negarlo e affidano il loro ingiusto dominio al terrore di ciò che può accadere se l’euro fosse abbandonato.
Se si volesse veramente rilanciare crescita e occupazione, il potere di governare dovrebbe già passare in mano di chi ha visto giusto e ha un programma di come gestire il dopo con euro o senza euro. Invece si continua a cooptare le vestali opportuniste del rito europeo.
La maggioranza dei nuovi critici è in gran parte composta da coloro che fino a poco tempo fa militavano tra i vecchi mitomani. Le loro posizioni però si differenziano: ai due estremi vi sono coloro che chiedono una profonda revisione dei Trattati europei e coloro che chiedono di uscire dagli accordi attuali perché non riformabili; la forza logica di chi chiede l’uscita dall’euro è che una moneta senza Stato non può sopravvivere se non in un ambito non democratico che ne sappia imporre l’accettazione a ogni costo.
In mezzo si colloca chi sostiene che l’Europa sta compiendo piccoli passi per migliorare il funzionamento delle istituzioni monetarie e fiscali e ciò sarebbe sufficiente per mantenere in vita l’eurosistema e, più in generale, l’intera Unione (mercato comune compreso); la crisi verrebbe quindi superata con le attuali strutture e politiche.
Purtroppo, questa tesi errata ha conquistato anche il presidente della Repubblica che va svolgendo un ruolo pivotale negli equilibri politici; egli non è tenuto a conoscere i fondamenti dell’economia né ha a sua disposizione, come tentò di avere il presidente Cossiga, un consigliere economico e, di conseguenza, deve rivolgersi ai vertici di governo che sono espressione della mitomania europea per intima vocazione, come fu per Monti e Letta, o per opportunità, come per Draghi e non pochi altri; in tal modo contribuisce a rafforzare l’asse delle scelte a favore dei diktat europei. Non basta limitarsi a chiedere più attenzione alla crescita e alla disoccupazione per ottenerla: occorrono riforme dell’architettura istituzionale e delle politiche europee.
La competizione elettorale per il nuovo Parlamento europeo dovrebbe svolgersi su questi temi, ma espressi in modo elementare, come d’obbligo nei referendum. Questo sarebbe il compito degli esperti di comunicazione sociale affiancati dagli economisti, ma i primi non si sa dove siano, mentre i secondi vanno facendo una tremenda confusione. Un esempio è il Manifesto firmato da 300 persone curato dal Sep, la Scuola di politica economica europea della Luiss, che, oltre a contenere richiami statistici errati (come l’inflazione del 20% attribuita alle svalutazioni della lira) e ipotesi di relazioni causa/effetto tra variabili economiche «appese ai lacci delle proprie scarpe», non spiega al comune lettore perché il paese debba accettare anche i costi del malfunzionamento europeo oltre quelli che il nostro paese ha ereditato a causa di decenni di malgoverno; e, non potendo dimostrare che l’euro così com’è porta benessere, sparge terrore sulle conseguenze dell’abbandono degli accordi monetari europei.
Considero questo comportamento una vergogna culturale e un imbroglio sociale. La storia insegna che gli italiani capiscono, ubbidiscono e, se ben guidati, sanno anche correggersi: se continuiamo a dire loro che la ripresa arriva tra sei mesi (ora l’anno dopo) essi hanno la pazienza di patire la crisi e sopportare le tasse conseguenti; ma la realtà porterà a un’esplosione di rabbia ancora più grave di quella che il M5S è capace di incanalare pur non avendo programmi sul da farsi.
Credo che il compito degli studiosi sia quello di illuminare la strada degli elettori e non tenere lo strascico dei governanti nella speranza di trarne personale beneficio. Perciò i quesiti che devono essere rivolti all’elettore sono i seguenti:
1. Vuoi stare nell’euro con le conseguenze sotto i tuoi occhi o affrontare il costo dell’uscita?
2. Vuoi continuare ad aumentare il debito pubblico per stare meglio o tagliare la spesa pubblica accettando le conseguenze?
3. Vuoi rimborsare il debito pubblico cedendo il patrimonio statale o pagando più tasse per rimborsarlo?
Magari le parole da usare non saranno queste, ma i concetti sì. Naturalmente si scateneranno ridde di interpretazioni, ma, alla fine, l’elettore deve decidere quali alternative scegliere e a chi affidare il compito di realizzarle, assumendosi le responsabilità delle conseguenze. L’Europa e il governo italiano sapranno quello che devono fare, la situazione politica si chiarirà e, di conseguenza, i falsi profeti saranno finalmente relegati ai margini. È un insulto alla sovranità popolare affermare che gli elettori non sanno scegliere e quindi le élite devono farlo per loro, un vecchio e pericoloso vizio del paese difficile da estirpare.