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Siete sicuri che serve davvero una Leopolda di centrodestra?

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Berlusconi non molla, Toti lo difende, Fitto incalza, Alfano e Meloni resistono, Passera e Fini sono in cerca di una nuova visibilità. È intorno a questo desolante quadro che si è aperto il dibattito su una “Leopolda dei moderati”. Ricostruire il centrodestra, dopo la batosta che ha subito alle Europee, non sarà semplice ma la soluzione non può essere quella di scimmiottare il modello renziano.

RENZI VINCE E CONVINCE

Il Presidente del Consiglio ha stravinto il suo primo appuntamento elettorale da premier e da segretario del Pd perché ha imposto lui la sua agenda battendo “l’assassino Grillo”, per usare un appellativo di berlusconiana memoria. Renzi ha vinto e convinto da Milano a Palermo e si è accaparrato tutti i voti dell’elettorato moderato che un anno fa aveva dato fiducia a Mario Monti. Per la prima volta anche il Veneto, tradizionalmente anticomunista, ha voltato le spalle al centrodestra. Ciò significa inequivocabilmente che il centrodestra non è più una forza attrattiva per il ceto medio moderato, ma non è ancora morto del tutto. Se si sommano aritmicamente i voti delle varie forze si arriva a circa un non disonorevole 30%, ma nessuna di queste supera da sola il 20% e ciò evidenzia quanti danni ha causato un’eccessiva frammentazione dell’offerta politica.

DA COSA DIPENDE LA CRISI

L’attuale crisi dipende principalmente dal fatto che Renzi ha cambiato i tradizionali paradigmi di sinistra e destra. Tradizionalmente la sinistra italiana, dalla morte di Berlinguer in poi non è stata guidata da leader forti ma ha avuto una gestione interna fortemente oligarchica. E anche nella Prima Repubblica, sebbene soggetto al “centralismo democratico”, il vecchio Pci aveva un apparato fortemente oligarchico, con la maggioranza e le minoranze del partito che a rotazione gestivano il potere. Lo stesso meccanismo si è ripetuto nella Seconda Repubblica con il dualismo tra dalemiani e veltroniani che ha impedito che emergesse una leadership forte e autorevole ma anzi ha bruciato parecchi segretari di partito nel giro di un ventennio. Il mondo della destra, invece, è sempre stato caratterizzato da leader carismatici che dentro il loro partito mal digerivano le correnti di minoranza. Berlusconi, Fini, Casini e Bossi ne sono un esempio plastico ma prima di loro anche Almirante rientrava a pieno titolo in questa categoria. Ora, con Renzi, si sono invertite le parti: la sinistra ha un leader forte che si è mangiato prima gli oppositori interni al partito e poi quelli esterni, mentre il centrodestra è dilaniato dalle lotte tra i vari capicorrente.

LA SALVEZZA DEL CENTRODESTRA

Per uscire dall’angolo in cui si trova il centrodestra sono in molti a proporre le primarie e una “Leopolda” immaginando che le ricette che sono state valide per la sinistra lo possano essere anche per i cosiddetti “moderati”. Si rischia però di incorrere nel pericolo di promuovere convention, incontri o caminetti dove tutti dicono le stesse cose e si accentuano soltanto le lotte interne dando vita a una gara tra chi conquista di più il pubblico. Le ricette del centrodestra sono sempre le stesse e ancora valide: meno spesa pubblica e meno tasse, più federalismo e più poteri al premier, magari con un’aggiunta di presidenzialismo, che non guasta mai. È dagli anni ’70 che, l’Msi prima, e Forza Italia e An poi, organizzano incontri sul presidenzialismo.

LA MORTE DEL PDL

Ora il problema non riguarda la piattaforma programmatica o ideale del centrodestra del 2018 ma chi dovrà portare avanti le istanze del futuro polo dei moderati. Il peccato originale da cui nasce la più grande sconfitta degli ultimi vent’anni è la morte del PDL. Da un partito unico del 37%, che raccoglieva attorno a sé le istanze dei liberali, dei cattolici liberali, dei socialisti riformisti e della destra nazional-popolare, si è passati a una Forza Italia del 16,8% e una “nuova AN” del 3,6% e una “nuova Udc” del 4,3% (senza Casini, Alfano sarebbe arrivato a stento al 3%…).

SEMPRE LE STESSE FACCE

La crisi del centrodestra non è valoriale o ideale ma nasce dal fatto che i suoi leader hanno perso il proprio carisma, inteso in senso weberiano del termine, e coloro che si pongono come successori del leader non sono credibili perché troppo compressi con l’ “Ancien Regime”. È per questo motivo che i tentativi di Fini, Casini e Alfano sono falliti e anche quello di Fitto non nasce sotto i migliori auspici. È da anni che il centrodestra, sia a livello nazionale, che a livello locale propone sempre le stesse facce. Si pensi ad Alemanno a Roma, candidato per tre volte consecutive a sindaco oppure ai quattro mandati di Formigoni o all’ennesima riproposizione, recentemente promossa da Berlusconi, di ripresentare Sandro Biasotti come governatore della Liguria che sembra ricordare i tre tentativi di Storace nel Lazio (in entrambi e casi solo una volta l’elezione è andata a buon fine).

COSA SERVE

Renzi ha vinto perché si è fatto carico di un processo di “rottamazione” che ha messo da parte tutta la vecchia classe dirigente degli ultimi vent’anni perché ha avuto il coraggio di non scappare. Ha scalato il partito con un’Opa interna senza avere alcuna velleità personalistica di crearsi un proprio partito. Nel centrodestra leader sempre meno carismatici, invece di impegnarsi a ricostruire un soggetto unitario danno vita a liste, movimenti o partitini per vedere che prende uno zero virgola in più. Serve un partito vero, radicato nel territorio, dove vi siano luoghi di discussioni interne, gestiti da persone reali e non calate dall’alto. Luoghi da cui possa emergere un leader carismatico, giovane, capace e, possibilmente non “figlia d’arte”.



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