Non c’è dubbio che il Centrodestra va ricreato: però idealmente ancora prima che organizzativamente. Partendo da una seria analisi delle esperienze anche non recentissime; e tenendo conto dello stato in cui questo schieramento plurale si trova dopo il voto europeo (e amministrativo) del 25 maggio. Così come è apprezzabile, utile, persino generosa l’iniziativa di Formiche.net di aprire un libero dibattito a tutto spettro, non escludendo chiunque abbia qualcosa di valido da suggerire. Ma occorre richiamarsi alla cultura democratica, piuttosto che alle posizioni di potere conseguite o minacciate, non a modelli altrui: che hanno funzionato per altri soggetti solo apparentemente maturati ultimamente.
La Leopolda è stata intesa, ed ha funzionato, perché pretendeva una scossa rottamatrice di una sinistra arcaica, corporativa, burocratica e perennemente ambiziosa anche se ormai priva di una identità distinguibile da altre forze postcomuniste. La Leopolda, però, evoca un po’ i cori di San Babila dei fascisti della prima ora; e un po’ lo slogan sessantottino «la fantasia al potere», che parve potere cambiare il mondo e, invece, si tradusse in un giovanilismo impropositivo e velleitario e come una componente non trascurabile dei terrorismi rossi e neri che se ne erano imbevuti parossisticamente.
Ma tali ingredienti, peraltro comuni al grillismo, ai sostenitori della democrazia elettronica (cioè virtuale, facile ma anche inclinante a qualsiasi ondeggiamento e manipolazione) e a un neofemminismo che ottenebra la qualità intellettuale delle italiane, dopo il 25 maggio hanno condotto anche a scippare l’idea di partito della nazione che Adornato e Casini avevano assegnato ad una Udc che costituiva un perno fisso del centro-destra possibile e, invece, ora inclina a proporsi con preoccupanti tendenze autoritarie. Una felice, satirica definizione di Marcello Veneziani – Dice d’Italia, con semplice scambio di una vocale, la i in luogo della u di Duce – rende bene il senso dell’appiattimento rapido sulle parole del più giovane primo ministro della storia nazionale, giacché la corsa a salire sul carro del vincitore è, purtroppo, ricorrente fra le nostre contrade.
Ammetto che anche un eventuale richiamo a Todi 1 o a Todi 2 servirebbe a poco, ai fini di una ricomposizione né affrettata, né verticistica. Così come mi pare parecchio improprio impuntarsi sulle primarie, uno strumento che ha tutt’altra funzione negli Stati Uniti, rispetto alla semplice conta dei voti che si è avuta nella sinistra italiana e in quel grillismo sbrigativo che si ritiene all’avanguardia perché ha captato gli orientamenti di quanti hanno scoperto nel messaggio elettronico il modo di uscire di depressione e di sentirsi parte decisiva di una folla. E poi, quando parliamo di centro-destra, stiamo attenti: perché, agli sconfitti del 25 maggio, si sono (ri) aggiunti dei baroni dell’economia e delle manovre finanziarie che, di democrazia, non paiono proprio d’averne scienza e coscienza.
I soggetti ai quali rivolgere i consigli, i suggerimenti, e anche le reprimende di elettori delusi da comportamenti irati e irrazionali, sono quelli già sul mercato: non i presunti salvatori della patria, che hanno peraltro il torto di non essere dei nuovi, ma degli anziani signori che si sono costruite carriere professionali, ma la politica democratica ignorano persino donde scaturisca. I soggetti esistenti si può soltanto iniziare a sollecitarli a ricordare dove nascono; come sono stati cooptati; quali reali tassi di rappresentanza territoriale esprimono; quali prove hanno dato ultimamente di sapere raccogliere consensi nuovi e non perdere antiche rendite; quali sono i loro progetti innovativi, al di là delle posizioni di potere, peraltro acquisite stando dentro la cooptazione berlusconiana, non dopo un riposizionamento funzionale alla rielezione e non per dare impulso ad una nuova idea di partito, di strutturazione dello Stato. Che è altra cosa dalla cosiddetta società civile, così come la politica non è una lotta ad impadronirsi di una poltrona.
E poi un punto non secondario: il centro è cosa diversa dalla destra, non soltanto culturalmente, storicamente e metodologicamente. Si deve cominciare anzitutto a pensare che le stesse categorie politologiche classiche in Italia sono saltate. E che, l’Italia, ora non è bipolare bensì tripolare. Sicché le federazioni organizzative e le alleanze politiche sono ancora più complesse di prima. Insomma riformare strutture e costituzione non significa rottamare anche il principio di maggioranza: che è cosa diversa dall’annunciare cambiamenti per nulla cambiare.