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Perché il referendum contro il Fiscal Compact è cosa buona e giusta

Credo sia importante chiarire alcuni punti di quello che viene, giornalisticamente chiamato, il referendum per abrogare il Fiscal Compact.

In primo luogo, allo stato della vigente normativa costituzionale dato che il Fiscal Compact è un accodo intergovernativo, assimilabile a un trattato (che è stato ratificato da 12 Stati dell’Unione Europea prima dell’entrata in vigore) non può essere soggetto a referendum abrogativo ai sensi dell’art. 75 della Costituzione, che non ammette tale strumento di democrazia diretta per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.

Occorre porre questo articolo della Costituzione nel contesto storico in cui venne redatto e approvato. Si temevano referendum contro tasse e imposte che avrebbero sfasciato le finanze pubbliche (ma ci si è peritati di interpretare in modo molto lasco l’art. 81 della Costituzione sulle coperture di bilancio). Si pensava ad amnistie e indulti che avrebbe aperto le carceri a delinquenza comune – magari sulla spinta di mafia, camorra, e ndrangheta. Soprattutto, le feluche temevano di perdere un ruolo che comunque non avevano più se si fosse messa in discussione quella “diplomazia segreta” che rappresentava l’essenza del loro lavoro. Oggi gran parte di queste motivazioni non reggono. Anzi, il governo Renzi farebbe bene a proporre la soppressione dell’art. 75 della Costituzione o una sua drastica riscrittura.

La proposta di referendum, quindi, non riguarda il Fiscal Compact ma aspetti specifici della legge 243 del 2013, la quale dà attuazione al principio del pareggio di bilancio recentemente introdotto nella Costituzione (con la legge costituzionale n. 1 del 2012). Tuttavia, il significato politico del referendum è molto chiaro: si tratta di chiedere ai cittadini di esprimersi finalmente sull’intero sentiero di austerità previsto dal Fiscal Compact per la politica economica italiana nei prossimi vent’anni.

Sono impegni che tecnicamente non possono essere rispettati, a meno di volere trascinare il Paese in una prolungata recessione dagli effetti sociali devastanti. Il Trattato di Maastricht, prima, e il Fiscal Compact, poi, redatti d’impulso in un contesto di preoccupazione per i nuovi scenari che si aprivano dopo l’unificazione tedesca, prevedono clausole che potrebbero far naufragare il progetto d’integrazione europea.

Lo hanno scritto economisti di ogni scuola negli Anni Novanta, quando tenni su questi temi una rubrica quotidiana in materia su Il Foglio. Per chi vuole aggiornarsi, legga il libro appena uscito L’Europa Tradita di Giuseppe Di Taranto (Luiss University Press, 2014 pp.88, € 14), un lavoro snello ma esauriente con proposte specifiche a breve e medio termine su come uscire dall’impasse. Anche se non condivido tutte le proposte, lo raccomando come lettura snella e chiarissima per orientarsi in una materia dove domina il tecnicismo.

Dovrebbe essere studiato soprattutto dalla squadra che sta aiutando il Presidente del Consiglio nei molteplici compiti che prevede la presidenza degli organi di governo dell’Unione Europea (UE) nel semestre che inizia l’ormai imminente primo luglio.

Il quadro si presenta meno positivo di quello che pareva all’indomani delle elezioni europee quando, sull’onda del forte consenso alla urne, si pensava di poter concludere un “patto politico” su flessibilità (nell’applicazione dei vincoli europei) in cambio delle riforme istituzionali. Non solamente il percorso delle riforme istituzionali appare impervio e in salita, ma – quel che più grave – il 12 giugno il Fondo monetario ed il 16 giugno la Banca centrale olandese hanno stilato documenti tecnici secondo i quali Italia e Spagna hanno superato la Grecia tra i Paesi dell’eurozona da cui potrebbe partire un virus contagioso nel sistema bancario e finanziario nel resto dell’area.

Non sono certo segnali incoraggianti. Suggerire alla stampa di “non farci caso” equivale  a mettere la testa sotto la sabbia.


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