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Renzi, la burocrazia statale e il cinismo

Disposizioni urgenti per il ricambio generazionale e delega al Governo per la riorganizzazione delle Pubbliche amministrazioni. Il premier Matteo Renzi continua nella sua opera di rottamazione: nel suo mirino non ci sono solo i vecchi dirigenti del suo partito ma anche le riforme adottate dallo stesso Pd a partire dal 1977, con i governi Prodi e D’Alema. Del resto, il pentimento sulla riforma del Titolo V della Costituzione, approvata dal centrosinistra con un solo voto di maggioranza nel 2001, era già noto.

Girano testi, ancora non ufficiali, che si aggiungono al comunicato stampa diramato al termine della riunione. Il decreto legge va subito ad incidere sui privilegi della casta: eliminazione del trattenimento in servizio oltre l’età della pensione, abolizione della facoltà per i magistrati di assumere incarichi dirigenziali nella Pa prendendo l’aspettativa anzichè dimettendosi; divieto di assegnare incarichi dirigenziali a chi è già in quiescenza, riforma degli onorari per l’Avvocatura dello Stato e degli altri enti pubblici.

Nella disegno di legge delega si prevede il completo riassetto delle amministrazioni sul territorio, ribaltando l’impostazione dell’allora ministro della Funzione pubblica Franco Bassanini che aveva riorganizzato la presenza statale sulla base di Uffici Territoriali di Governo dislocati presso le Prefetture, a livello provinciale. Stavolta il baricentro è regionale, e le Prefetture saranno praticamente tutte abolite, lasciandole solo nei capoluoghi di Regione, con la eccezione di quelle località a forte presenza criminale che richiedono una diretta presenza dello Stato. D’altra parte, i Consigli provinciali non esistono già più. Ci sono poi le disposizioni sulla dirigenza e sul pesonale ed un intero Capo dedicato alla semplificazione: redazione dei testi unici, controlli amministrativi semplificati, estensione del silenzio assenso per le amministrazioni statali. Infine, c’è l’Agenda della semplificazione amministrativa e moduli standard.

Bisogna intendersi sul significato profondo della volontà riformatrice del Pd. Ogni volta, in un modo o nell’altro, interviene radicalmente sull’intera macchina amministrativa pubblica, con la scusa di renderla più efficiente. Il filo rosso è sempre lo stesso: con la riorganizzazione si possono legittimamente nominare tutti i nuovi dirigenti. Il metodo è consolidato: quando un Ministro entra in carica, si ritrova con i Presidenti ed i consiglieri di amministrazione degli enti o degli istituti pubblici sottoposti alla vigilanza del suo dicastero già nominati dal predecessore. Se non ha voglia di aspettare la scadenza statutaria per nominare quelli a lui più congeniali, agisce per decreto, stabilendo che l’ente viene disciolto e contestualmente ricostituito: con nome, finalità ed organizzazione solo apparentemente diverse. Ciò però consente al Ministro di buttare a mare la vecchia struttura e farsene una nuova di zecca, a sua immagine e somiglianza. Anche stavolta, non ci si va leggeri: tutte le Scuole delle pubbliche amministrazioni sono unificate. D’altra parte, nessuno oggi oserebbe affermare che non c’è necessità di eliminare duplicazioni e ridurre sprechi. Si azzera tutto e si fa en plein.

Si tratta di un vizio che viene da lontano, quello di rottamare intere classi dirigenti per ragioni politiche: basta ricordare i governi guidati da Mariano Rumor, leader dei dorotei, che con la legge 335/1970 premiarono con uno scivolo pensionistico i dipendenti pubblici ex-combattenti, ricordandosene ben 25 anni dopo la fine della guerra, e poi con il dPR 1092/1973 consentirono di andare in quiescenza con appena 19 anni, 6 mesi ed 1 giorno di servizio.

Il partito socialista reclamava spazi, ed i vecchi dirigenti pubblici dovevano andarsene a casa, anche se con un grazioso cadeau. Anche la riorganizzazione dell’Esercito, nella seconda metà degli anni 70, con lo scioglimento dei Reggimenti trasformati in battaglioni privi di autonomia operativa, fu giustificata da ragioni economiche. In realtà, tolse di mezzo intere generazioni di ufficiali superiori, i colonnelli, assai invisi a sinistra. Il nuovo baricentro furono le nuove Brigate, rette da generali nominati dal Consiglio dei ministri. Fu una ridislocazione del potere.

Le decisioni sono pendolari, a seconda delle convenienze: la sinistra che nel 1997 riorganizzò tutti gli apparati pubblici e privatizzò i rapporti di pubblico impiego, ivi compresi quelli dei manager che cominciarono a venir pagati a stipendi di mercato, dovette bloccare il turn-over per fare economia. Poche assunzioni per i giovani, da allora, con una Amministrazione oggi fin troppo invecchiata. Ora si proclama la necessità opposta: per risparmiare si mettono i tetti agli stipendi dei manager pubblici e si mandano via i dipendenti anziani. Largo ai giovani, sì, ma nel frattempo, con la scusa della riorganizzazione generale, si rifanno tutte le nomine.

C’è sempre del cinismo nella politica. Spesso dell’arroganza. Basta esserne consapevoli.


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