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Perché non va esclusa una deflagrante crisi dell’euro

La presidenza italiana degli organi di governo dell’Unione Europea (UE) potrebbe trovarsi con una gatta da pelare molto più seria di quella che oggi ci si immagina a Palazzo Chigi, alla Farnesina e a Via Venti Settembre: una seria crisi dell’euro, in cui all’apprezzamento del cambio nominale della moneta unica si accompagnerebbe una recessione feroce. Ciò attizzerebbe non solo l’opposizione all’euro da parte della sinistra e della “destra sociale” (alla Le Pen) ma anche proteste, più o meno organizzate, dal centro e dalla “destra”, orchestrate anche da industrie. In Italia, il suggerimento che viene dal Palazzo è di non parlare e, se del caso, minimizzare. Non fare “la Cassandra”. La principessa troiana, però, ci aveva visto giusto.

Ad esempio, nessuna testata del Belpaese ha parlato del movimento creato da uno dei maggiori industriali tedeschi (è stato amministratore delegato della IBM della Repubblica Federale), Olaf Henkel, per “tornare al marco” prima che “l’unione monetaria ci distrugga tutti”. Henkel è un signore garbato e ben vestito (ha sempre una pochette di seta nel taschino della giaccia), non certo un Masaniello; è certo che il tempo è dalla sua parte, che l’Europa sta andando alla sfascio e che i tedeschi devono evitarlo almeno per loro stessi e per i loro figli. Henkel è diventato una fonte di irritazione continua per il Cancelliere Angela Merkel, un’europeista convinta ed un’eurofila sfegatata.

Non è isolato. Di recente, l’Università di Oxford, non certo un ambiente di scalmanati, ha ospitato un seminario a inviti sul tema. Suggeriamo al sottosegretario Sandro Gozi, delegato per l’UE, di leggerne gli atti, pubblicati nel Vol. 52 No.4 del Journal of Common Market Studies, da tempo immemorabile un trimestrale “europeista” tra i più prestigiosi.

Il titolo del seminario è “La Grande Depressione e la Crisi dell’Eurozona: Lezioni dal Passato”. Un saggio di Scott Urban raffronta i due periodi, concludendo che, al pari di quanto avvenne nel 1929-30, per fare uscire l’Europa dalle sabbie mobili in cui si è ficcata, occorrerà un deprezzamento del cambio nominale, unitamente a controlli valutari. Uno studio di Nicholas Crafts giunge a conclusioni analoghe, affermando, però, che tale cura non è “compatibile con la sopravvivenza dell’unione monetaria”. L’alternativa sarebbe una “vera unione bancaria” e “soprattutto una unione delle politiche di bilancio”. Ciò richiede, però – occorre aggiungere – un “compromesso alla Bretton Woods” in base al quale l’Eurogruppo accetterebbe una maggiore flessibilità, coniugata inevitabilmente con un maggior rischio di crisi finanziarie (molto più gravi di quelle di ottanta anni fa).

E’ in questo quadro che Matthias Morys lancia, o meglio rilancia, l’idea di un tallone aureo per l’euro (che limiterebbe, quindi, l’’agilità” di manovra della Banca centrale europea, Bce). Si avrebbero questo conseguenze: o alcuni Stati (non potendo reggere alla disciplina del tallone aereo) se ne andrebbero dall’eurozona alla ricerca di percorsi di crescita articolati su svalutazioni competitive (e miglioramenti di competitività) oppure si rafforzerebbe la cooperazione politica ponendo le basi per maggiore crescita per tutta l’area, analogamente a quanto avvenne per il “gruppo dell’oro” negli Anni Trenta.

Una fantasia? Nel novembre 2010, in una saletta del Ripetta Residence, si diedero convegno (a porte rigorosamente chiuse) dirigenti di dicasteri economici, della Banca d’Italia ed anche pochi esperti esterni per esaminare con esponenti dell’industria del metallo giallo se le prospettive di aumento della produzione dalle miniere fossero tali da sostenere la crescita in Europa. Ovviamente, nessuno stilò un verbale dell’incontro. La riservatezza era d’obbligo. Ma riunioni simili avvennero nelle altre maggiori capitali dell’UE. E sulla riva del Meno si contò più di un attacco di bile.


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