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Fincantieri e la lezione politica sulle privatizzazioni

Forse non abbiamo letto bene i giornali. Con tutta probabilità c’è sfuggito qualche commento. Di sicuro un corsivetto politico sull’esito della Offerta pubblica di acquisto di azioni Fincantieri sarà stato scritto.

Eppure il risultato non esaltante della privatizzazione del gruppo guidato da Giuseppe Bono deve indurre a qualche riflessione, pacata quanto forse eterodossa, rispetto alle ortodossie imperanti sulle dismissioni statali.

I numeri sull’Ipo Fincantieri: l’offerta iniziale è stata tagliata di un terzo, i rapporti iniziali di allocamento delle azioni (80 per cento per gli istituzionali e 20 per cento al retail sono stati poi invertiti). Pochi (anzi pochissimi, scrive oggi il Sole 24 Ore) gli investitori d’oltre confine che si sono affacciati, fatta eccezione per il Regno Unito e la Svizzera. Ma è mancato l’interesse del resto dell’Europa e soprattutto degli Stati Uniti. Alcune ipotesi sono state avanzate su Formiche.net, senza dimenticare l’intenso road show estero per Fincantieri sostenuto e festeggiato dai vertici del ministero dell’Economia, come ha ricordato qui il giornalista dell‘Ansa, Corrado Chiominto.

Beninteso, l’apertura al mercato dell’azionariato di un campione nazionale come Fincantieri era opportuna ed auspicabile da tempo. Però il mantra di privatizzare tutto, subito e comunque forse va rivisto alla luce dell’esito della quotazione in Borsa del gruppo; quotazione che peraltro consentirà al colosso della cantieristica – vanto dell’Italia – di attingere a capitali e a equity finora preclusi con l’assetto azionario pubblico.

Ciò detto, sarebbe opportuno però non farsi troppe illusioni sugli incassi previsti dal governo per questo anno: l’esecutivo Renzi ha indicato introiti per circa lo 0,7 per cento del Pil ogni anno, per i prossimi tre anni. Ossia circa 11 miliardi di euro l’anno. Finora però l’incasso è pari a zero. E il caso Fincantieri dovrebbe forse far riflettere.



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