Il primo impatto vero del governo Renzi con la presidenza dell’Unione europea, ovvero il consiglio dei ministri economici che doveva stabilire le linee guida sul dossier più importante di tutti, è stato negativo. La frase chiave del comunicato finale è “fare migliore uso della flessibilità contenuta nelle regole esistenti del Patto di stabilità e crescita”. E’ chiaro che non basta e l’Italia vuole andare più in là. Matteo Renzi, però, non ha ottenuto finora più di quel che era stato offerto a Enrico Letta e Mario Monti. Il presidente del Consiglio ha reagito con un misto di stizza e frustrazione, stando a La Stampa, il quotidiano che ha dato l’informazione più equilibrata.
Il fatto è che il governo italiano ha commesso un errore di forma e uno di sostanza, e il secondo è conseguenza del primo. Nella forma, ha mostrato di non conoscere il codice di Bruxelles che non consente di mettere gli interessi nazionali in cima a quelli dell’Unione. E’ un codice fasullo, naturalmente, ma anche l’ipocrisia fa parte della politica. Tanto più con i Paesi del nord Europa. Non vogliamo cedere a beceri luoghi comuni, ma se fosse vero che il Mediterraneo è il regno dell’astuzia machiavellica, allora è vero che sul Reno dominano i sepolcri imbiancati.
Fuor di metafora, Renzi ha sbagliato a mettere in cima all’agenda la flessibilità perché così ha eccitato i peggiori pregiudizi nordici, cioè la convinzione che sia un escamotage per spendere e spandere senza fare i compiti a casa (compiti che, per dire pane al pane e vino al vino, comportano di tagliare la spesa corrente, i salari e le coperture dello stato sociale in Italia ancora superiori alla media). Di qui l’immediata reazione pavloviana dei tedeschi.
Chi conosce bene il codice di Bruxelles per averlo praticato ai massimi livelli suggerisce un’altra strada, apparentemente una scorciatoia laterale, in realtà la vera via maestra. E qui veniamo alla sostanza.
Qual è il problema principale che rende oggi l’Europa una disunione in preda a spinte centrifughe? Il continuo aumento degli squilibri tra aree e Paesi. Non che sia possibile raggiungere tutti lo stesso livello di benessere e di crescita, una tale convergenza non si realizza nemmeno negli Stati Uniti. Ma il fatto che, da almeno un decennio, il nocciolo della Germania e dei suoi satelliti si allontana costantemente dal sud e ormai anche dall’antico partner francese, crea frustrazione, risentimento e instabilità socio-politica.
In assenza di un vero potere federale e di una politica fiscale comune attraverso la quale compensare il divario, viene chiesto di farlo con una continua svalutazione dei redditi interni che contribuisce a far crollare la domanda interna, a deprimere la cresciuta e creare deflazione. La situazione è più grave là dove c’è la moneta unica. Ma attenzione (e questo valga per i nemici dell’euro come per i suoi sostenitori) il problema si sta creando anche in Gran Bretagna o in Svezia, per non parlare del centro Europa (con l’eccezione della Polonia dove l produttività è alta e i salari sono abbastanza bassi da non richiedere ulteriori svalutazioni).
Dunque, Renzi avrebbe dovuto mettere al primo posto la riduzione di questi squilibri di fondo. Ciò va nell’interesse della Ue e in quello dell’Italia come è ovvio. Nessun sospetto, perché Roma avrebbe parlato urbi et orbi. Ma come?
Non è difficile, suggerisce sempre chi conosce bene l’eurocrazia e i rituali della governance globale (come si dice): basta prendere i comunicati che negli ultimi due anni sono stati approvati a ogni vertice del Fondo monetario internazionale e del G20. Il punto essenziale è sempre quello che recita: i Paesi in avanzo strutturale della bilancia con l’estero debbono mettere in opera politiche fiscali volte al riequilibrio. Tradotto: aumentare la domanda interna e con questa le importazioni. I Paesi in questione sono stati sempre due: la Cina e la Germania. Adesso Pechino ha riequilibrato in gran parte il suo attivo (è sceso al 2 per cento del pil). Berlino, al contrario, ha continuato ad accumulare arrivato al 7% del prodotto lordo quota che eccede anche il livello raccomandato dalla Ue (non oltre sei punti di prodotto lordo).
Naturalmente i tedeschi fanno i finti sordi. Ma non possono andare avanti a lungo. La sopravvalutazione dell’euro, conseguenza di una politica economica mercantilistica, è diventata un problema per il sistema monetario internazionale e la moneta europea verrà messa sotto tiro al Fmi di settembre. Tanto più in quanto lo spettro della deflazione si fa concreto e la stessa Germania rallenta. In sostanza i paesi con i conti in ordine debbono fare una politica economica espansiva. Le politiche fiscali spettano ai singoli governi, ma le regole dell’Unione prevedono un coordinamento nell’interesse comune. Altrimenti perché stare insieme? E’ questa, dunque, la leva da azionare.
Perché Renzi non lo ha fatto? Impossibile sostenere che non l’abbia capito, tanto più visto che al suo fianco c’è Pier Carlo Padoan il quale, prima al Fmi poi all’Ocse, queste cose le sa a memoria. Forse per superficialità, per presunzione o perché troppo innamorato del proprio metodo, lo stesso usato con Beppe Grillo? Se è così, dovrebbe capire che quel che è efficace in patria, non funziona altrove. E’ questione di codice.
Stefano Cingolani