Una volta Charles De Gaulle disse che l’Italia non era un Paese povero, ma un povero Paese. Aveva ragione. Non stiamo certo peggio di cinquant’anni fa, ma oggi abbiamo un disperato bisogno di riforme che sblocchino paralisi istituzionale, immobilismo sociale, declino manifatturiero.
Ma, invocate da tutti e quasi mai realizzate da nessuno, le riforme restano una specie di miraggio. Più sono necessarie, più forti sono le resistenze che incontrano. Il salvataggio di Alitalia, di nuovo agli onori della cronaca, ne è un clamoroso esempio.
Prima il rifiuto dissennato di integrare il vettore di bandiera in un player del trasporto aereo europeo o mondiale. Poi, puntuale, il disastro. Un piano industriale demenziale, sbilanciato sulle rotte interne, disintegrato dalla concorrenza dell’alta velocità ferroviaria. Ammortizzatori sociali, pagati dal contribuente, così generosi da fare invidia al sultano del Brunei. Un debito accumulato di oltre un miliardo di euro.
Ora, posso anche capire che Silvio Berlusconi e Corrado Passera, i grandi registi dell’operazione “Air-France e Klm no pasarán”, facciano finta di niente. Il primo ha i guai che conosciamo. Il secondo è impegnato a progettare questa volta il salvataggio dell’Italia (senza ali). Ma i sindacati sono ancora in campo, e stanno negoziando la partnership con Ethiad.
Nel 2008 sono stati, sia pure con responsabilità diverse, gli ascari di quella operazione. Non hanno nulla da rimproverarsi? La Cgil si è sfilata dall’accordo in nome della cara, vecchia cassa integrazione, per tenere incollati all’azienda tutti i dipendenti, magari in eterno. Mentre, come ha osservato Pietro Ichino, se in esso c’è una novità positiva è proprio il previsto utilizzo del contratto di ricollocazione.
Probabilmente i leader confederali la pensano come Machiavelli, quando ammoniva che “non c’è niente di più difficile da condurre, né più dubbioso di successo, né più dannoso da gestire, dell’iniziare un nuovo ordine di cose”.