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Un primo bilancio (non esaltante) del renzismo

Dopo l’enfasi delle primarie e dopo la grande conferma elettorale delle europee, eccoci in prossimità della pausa estiva, davanti a un primo bilancio della cosiddetta “era Renzi”. La valutazione non può essere positiva. Di là della simpatia o meno che si può avere per l’ex rottamatore, un dato è inconfutabile: il Paese non cresce, la disoccupazione aumenta, le nostre credenziali internazionali non si rianimano, e, soprattutto, non si vedono segni di una diversa forza dell’Italia dal punto di vista internazionale.

Per contro, di slogan ne abbiamo sentiti tanti, di proclami e di promesse più che mai, e, di fatto, il cambiamento di verso si è arenato nei tempi biblici di uno Stato repubblicano inefficiente e delegittimato.

Perciò, niente è più semplice che fare una valutazione “oggettiva” del renzismo della prima ora: un tracollo completo su tutta la linea. E, di là di tutto, la delusione travolge in modo dirompente specialmente l’opposizione moderata, sia quella di governo, il NCD, e sia quella di minoranza, Forza Italia.

Si può giustificare, infatti, una partecipazione all’esecutivo di centrosinistra e un accordo sulle riforme unicamente se i risultati superano le aspettative. Altrimenti, il fatto diventa complicità a un dissesto, e rappresenta una continuità con la mala gestione politica del passato che non promette nulla di buono.

Il renzismo sta fallendo, d’altronde, proprio sul suo terreno, vale a dire laddove aveva promesso maggiore efficacia: le cose concrete. Se questo è un dato incontrovertibile, occorre capire perché. E, ancor meglio, è necessario immaginare cosa si possa fare in futuro per proporre qualcosa di diverso, restando in democrazia.

La causa di questa devastante deflazione del Governo è dovuta principalmente alla filosofia di fondo del presidente del Consiglio. Nessun può trascurare oggi l’importanza della comunicazione, degli slogan efficaci, delle mani in tasca e del portato trendy. Ma quando i problemi sono gravi e di entità mastodontica, ci vuole la sostanza: è il momento in cui un Paese è salvato dagli statisti, non dai venditori di prodotti commerciali.

Tralasciando le battute, è chiaro che l’immagine pop renziana non ha agganciato la concretezza del paese, e non è riuscita, fino ad ora, a smuovere la straripante macchina parassitaria del Paese, non incidendo sulla potenza dei competitori interni ed esteri.

Prendiamo, ad esempio, il pacchetto delle riforme, sostenute con coerenza da Berlusconi. Era stata promessa la cancellazione del Senato e, invece, bene che andrà, avremo un Senato di nominati e un minor grado di rappresentatività elettorale nel legislativo del popolo italiano. Non male. Era stata promessa la svolta nella pubblica amministrazione e dobbiamo contentarci del ministro Madia che ci fa un bel discorsetto teorico sugli uffici amministrativi al servizio del cittadino. Ma via. Veramente dobbiamo credere che un bubbone tanto massiccio e corroborato da una mentalità assistenzialista secolare possa essere eliminato da un soave flatus vocis d’irrilevante forza politica?

Il problema è, in fin dei conti, l’inconsistenza e l’astrattismo di questo Governo, la troppa concentrazione sulle nomine e la scarsa capacità di imprimere il mutamento sociale necessario. C’è troppa ingenuità e scarso feeling con il nucleo duro del consenso. Renzi passa sopra e non va dentro l’Italia. Per questo le sue riforme s’inceppano.

In questa particolare diagnosi la colpa più grande ricade, in definitiva, sul centrodestra. Perché compito culturale, ideologico e pragmatico dell’opposizione dovrebbe proprio essere quello di trascinare dentro la realtà l’angeologia renziana, facendogli mordere i piedi dalle esigenze materiali e popolari trasmesse e rappresentate, legittimamente, proprio dal centrodestra.

Invece, ci troviamo davanti ad una complicità con Renzi che danneggia Renzi e definisce il renzismo come macchietta sulfurea e genialata artistica consociativa. Mentre il Paese affonda ormai nell’invisibilità, non vi è presenza italiana nel mercato, e siamo comprati a stock da multinazionali estere.

Lo spazio per un progetto politico alternativo c’è già e diventerà sempre più esteso nel tempo. Basta tornare alla realtà, alle cose vive e profonde, pensando che il corpo elettorale sia parte dello spirito nazionale, e non semplicemente un pubblico cui raccontare favole. Conta non ciò che si dice, ma chi lo dice e con quale pathos sta dentro il cuore della nazione. La democrazia funziona, infatti, se la politica è intimamente connessa con la società reale, e se la società reale partecipa alle riforme intervenendo direttamente nel processo riformatore, sentendosi unito alle guide politiche.

Ma qui da noi, si sa, il contesto comunitario, che è la cosa più importante in democrazia, è valutato solo come terreno di conquista o come utenti cui propinare sogni di gloria irrealistici. Ed è meglio per tutti salire sul carro del miglior perdente piuttosto che costruire quello del vero vincitore.

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