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L’Irak e l’arte della mediazione dimenticata dall’Italia. Parla Mario Mauro

Una guerra tra Stati che può coinvolgere tutto il Medioriente e l’area dei Paesi del Golfo. E’ questo il rischio secondo Mario Mauro, ex ministro della Difesa e presidente dei Popolari per l’Italia, che invita ad allargare lo sguardo per capire ciò che sta succedendo in Irak.

Senatore, qual è lo scenario da dover tenere presente per capire l’emergenza dei cristiani perseguitati in Irak?
In Medioriente e nei Paesi del Golfo si stanno scontrando dei colossi. L’Iran sciita e l’Irak sciita di al-Maliki, la grande influenza di Paesi come l’Arabia saudita e il Qatar, l’ambiguità del ruolo della Turchia negli ultimi tre anni, il contesto di degrado di alcuni Paesi, dall’Algeria alla Libia fino all’Irak stesso. Si è venuta a creare una sorta di mezzaluna esplosiva che va dalle colline curde fino alla Libia con al centro la Siria e il Libano in continua lotta per la leadership, anche di carattere religioso. Se non si comprende questo scenario, non ci si rende conto della pericolosità oggettiva di quello che sta succedendo in Irak. Ci si limita a commuoversi per una ferita religiosa senza capire che questo tipo di crisi può innescare una guerra tra Stati.

Quali sono i rischi per l’Italia?
L’Italia è un Paese fortemente a rischio in questo orizzonte. E’ sempre stata coinvolta, fin dai tempi antichi, negli scontri causati dalle zone ad influenza islamica. Per questo siamo obbligati a prendere posizione. Sarebbe un errore farlo da soli, senza la coperture delle nostre alleanze tradizionali, l’Ue e la Nato ma ci è richiesto un plus di iniziativa.

Che tipo di iniziativa dovrebbe prendere l’Italia?
Dovrebbe avere la lungimiranza di guardare al continente africano come diretto interlocutore per l’esigenza di pace da far prevalere attraverso la mediazione. Un’attività che, eccetto il rapporto privilegiato di Berlusconi con Gheddafi in Libia, è finita con la fine della prima Repubblica.

Come valuta l’intervento americano in Irak?
La decisione di Obama di limitare l’intervento ad azioni mirate in una strategia che sostanzialmente ha come obiettivo solo quello di tutelare i cittadini americani mi sembra miope. Anche se è una strategia non nuova nella storia degli Usa che sono intervenuti spesso dopo che i buoi erano già scappati.

Condivide l’idea di una “coalizione contro il terrore” lanciata da Formiche?
Sì, purché tenga conto di tutto lo scenario di cui ho parlato prima. Non è sufficiente combattere i terroristi perché i terroristi agiscono per nome e per conto di interessi più grandi. Gli uomini dell’Isis non sono nati combattendo in Irak, molti di loro hanno preso parte al conflitto siriano, molti hanno passaporto europeo e sono state finanziate anche da Paesi europei alcune delle formazioni islamiste che hanno combattuto in Siria.



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