Sono sempre stato un sostenitore accanito del Rossini Opera Festival (ROF) che ha un doppio merito a) ha fatto riscoprire i lavori del “Rossini serio” (e creato un’apposita Accademia per fare rinascere, dopo due secoli, la vocalità rossiniana) e b) ha trasformato una sonnolente, ancorché elegante, città di provincia nella Bayreuth italiana dove accorre pubblico di tutto il mondo (i teatri sono esauriti circa sei mesi prima della manifestazione, solo un terzo del pubblico è dell’Italia centrale, la metà è straniero) e ne rinvigorisce l’attività economica (un’analisi dell’Università di Urbino quantizza l’aumento dei fatturati aziendali nelle settimane del festival- da quelle che precedono la manifestazione a quelle immediatamente successive).
ALCUNE CARENZE
Per questo motivo, e sperando in una sempre maggiore eccellenza del ROF (che nel 2014 ha compiuto 35 anni), credo sia doveroso segnalare quando inciampa. Questa edizione, accanto a lavori di grandissimo spessore – come un Barbiere di Siviglia che dovrebbe essere visto ed ascoltato in Italia ed all’estero e l’integrale dei “peccati di vecchiaia” del compositore – due delle tre opere di cui si sono presentati nuovi allestimenti hanno mostrato carenze: Armida, lavoro con cui è stato inaugurato il festival, e Aureliano in Palmira (con cui il Festival ha completato la rappresentazione integrale del teatro in musica rossiniano in versione critica filologica). Occorre sottolineare che si tratta di opere poco rappresentate ma non del tutto ignorate.
DI COSA PARLIAMO
Armida venne riscoperta, in tempi moderni, al Maggio Musicale Fiorentino del 1952 con Maria Callas come protagonista e la regia di Alberto Savino. Ne sono state protagoniste Christina Deutekom (che proprio in questi giorni ha terminato la propria avventura umana), Renée Fleming, June Anderson, Katia Ricciarelli (nelle sua stagioni migliori). Sono state affiancate da tenori come Rockwell Blake, Gregory Kunde e Chris Merritt. Al ROF è stata presentata già nel 1993 con Renée Fleming e la regia di Luca Ronconi. I problemi principali di Armida sono due: a) il genere; b) la vocalità della protagonista. Armida è ‘opera fantastica’, un genere che non ha mai attecchito in Italia (mentre in Germania, Francia e Gran Bretagna ha creato vere e proprie ‘scuole’ dal settecento al novecento- e viene ancora oggi ripreso). Un unico tentativo di ‘opera fantastica’ italiana ha avuto successo – Turandot di Giacomo Puccini – ma per motivi che poco o nulla avevano a che fare con il genere. La vocalità della protagonista è calibrata su quella di Isabella Colbran – che sarebbe diventata la prima moglie di Rossini: un soprano anfibio in grado di svettare verso i registri più alti e la coloratura più impervia. E’ alle prese con quattro tenori dai registri leggermente differenti l’uno dall’altro e da un basso, nel ruolo del ‘cattivo’. In questo lavoro di puro edonismo vocale si sono cimentati soprani di grande rango. La giovane e bella Carmen Romeu è un soprano lirico di coloratura ma ha un volume sottile e non scende a registri da contralto e neanche da mezzo soprano. Ottimi i quattro tenori (Antonino Siragusa, Randall Bills, Dmitri Korchak, Vassilli Kavayas). Bravo Carlo Lepore nella parte del malvagio. Del tutto deludente la concertazione di Carlo Rizzi, che sembrava alle prese con Verdi non con Rossini. Il difetto di fondo, però, è la regia di Luca Ronconi. Nel 1993, aveva ambientato la vicenda ai tempi della’legione straniera ’ (ma Renée Fleming e Gregory Kunde hanno salvato lo spettacolo). Questa volta parte da un’idea buona: utilizzare l’’opera dei pupi’ siciliana (dato che il fantastico si basa sull’Ariosto). La prima parte regge. Nella seconda, l’idea è abbandonata: il balletto (che dovrebbe essere erotico) è trasformato in una battaglia tra uomini e donne, il palazzo sensuale di Armida in una scatola con fogliame marrone. Parte del pubblico ha protestato il regista ed il suo team.
AURELIANO
Aureliano in Palmira è una novità solo in quanto presentata in edizione critica integrale. In versioni tagliate si è vista, ad esempio, nel 1980 a Genova con Luciana Serra e Martine Dupuy, nel 1991 a Lucca con Denia Mazzola e Luciana d’Intino, nel 1996 a Bad Wildbad e nel 2011 in Germania. In effetti, è un lavoro che già nel 1813, quando debuttò alla Scala, era ‘vecchio’: un’opera d’impianto metastasiano (ossia settecentesco) in cui uno dei protagonisti vocali è un castrato (sostituito in tempi recenti da un mezzosoprano). Mario Martone ne fa uno spettacolo molto pulito.La bacchetta di Will Crutchfield (curatore dell’edizione critica) è puntuale. Vengono sfoggiate tre grandi voci (Micheal Spyres, Jessica Pratt e Lena Belkina). Siamo,però, alle prese con un drammone storico di quattro ore da cui lo stesso Rossini ha attinto a man bassa per altri lavori (principalmente Il Barbiere).
Di interesse prettamente filologico, arduo prevedere che abbia una nuova stagione. Almeno nella versione critica integrale che tuttavia merita di essere registrata a fini di studio.