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Moriremo davvero di articolo 18?

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

L’Italia è il paese delle contraddizioni, si sa. Ma un osservatore straniero che si dovesse trovare per caso a studiare il dibattito sul mercato del lavoro in corso in questi giorni rimarrebbe particolarmente sconcertato.

Da un lato una enorme di quantità di dati che mostrano come il lavoro stia cambiando. Uno su tutti l’aumento di contratti a tempo determinato parallelo alla diminuzione di quelli a tempo indeterminato. Ma poi l’aumento dell’età anagrafica dei lavoratori e tutto quello che questo implica per l’occupazione. E in ultimo, ma l’elenco potrebbe essere ancora molto lungo, decisioni dei lavoratori che sembrano aver già superato i vecchi schemi fordisti che ancora dominano il dibattito politico-sindacale. Basti pensare al recente accordo siglato dai sindacati con la famosa catena di gelaterie Grom e a quanto polverone sta sollevando.

Questi i dati reali. Ai quali si aggiunge l’incessante richiesta da parte degli organi europei, e in particolare della persona di Mario Draghi, di una modernizzazione del mercato del lavoro italiano.

A questi, come nel più classico dei dibattiti novecenteschi, si contrappone l’ideologia. Il titolo dell’editoriale di Vittorio Feltri “Moriremo di articolo 18” coglie bene la dimensione del fenomeno in corso. Da anni ormai si contrappongono fautori e distruttori di quello che ha preso la forma di un simbolo, da un lato di difesa dei diritti del lavoratore, dall’altro di difesa della libertà di impresa.

Non si è capito che nel frattempo è cambiata l’impresa ed è cambiato il lavoratore. Per cui ben venga un dibattito sul ruolo e la natura del contratto subordinato a tempo indeterminato, ma questo non può essere ridotto ad una clausola sul licenziamento, pur importante e non da sottovalutare.

Di cosa parliamo quindi? Tutti gli ultimi rapporti mostrano come parole come “flessibilità” e “partecipazione” non sono più termini di uno scontro dialettico tra le parti, ma sono le condizioni di sopravvivenza e, perché no, anche di crescita, di un moderno mercato del lavoro. Previsioni mostrano come tra pochi anni la maggior parte delle professioni proprie della produzione manifatturiera di larga scala potranno essere sostituite da robot, ma questo era calcolabile già in passato. Non era prevedibile invece che interi settori come quello automobilistico, per esempio, potrebbero diminuire largamente la produzione a causa di nuove forme di sharing economy. Come ha detto recentemente il fondatore di Uber l’auto sarà come l’acqua, “non è tua, ma scorre dal rubinetto quando ce n’è bisogno”.

Pensiamo anche all’ultimo rapporto McKinsey sulle conseguenze dell’utilizzo della tecnologia e di internet da parte della popolazione cinese. Questo fa pensare che la sostenibilità di un modello produttivo che si basa sulla delocalizzazione in paesi con manodopera non tutelata e a basso costo non è eterno.

Sono quindi importanti le parole di Renzi sulla necessità di rivedere nel suo impianto complessivo lo Statuto dei lavoratori, ma alla luce di questi dati, non della corrida ideologica sull’articolo 18.

Il contratto subordinato a tempo indeterminato è un istituto che risponde ancora alle esigenze del mercato del lavoro? La risposta non è scontata e i dati che abbiamo presentato prospettano una risposta negativa, non nel lungo periodo, ma già oggi.

Già l’ILO lo scorso dicembre rifletteva sulla sempre maggior polarizzazione del mercato del lavoro, per cui si sta andando verso una sempre maggior importanza delle competenze individuali, quelle che le macchine non possono sostituire. E questi lavori, caratterizzati ciascuno da particolarità irrinunciabili, avranno bisogno di una regolazione giuridica che tenga conto di queste peculiarità. Tale regolazione deve per esistere essere sussidiaria, ossia costruita in stretto raccordo con le singole attività produttive e commerciali. Questo implica un rapporto collaborativo e partecipativo tra lavoratore e impresa, al fine di ottenere ciascuno il meglio possibile. Occorre forse iniziare a ragionare, come diceva Simone Weil, nella logica dei doveri più che dei diritti. Il dovere che ha un imprenditore nel confronti della persona del lavoratore e viceversa.

Questi sono solo alcuni spunti, che non vogliono essere esaustivi ma lanciare una provocazione ad un dibattito estivo che, se continuerà in questo modo, si spegnerà lentamente come le foglie autunnali. Senza aver la forza di portare frutti. Frutti di cui tutti oggi abbiamo estremamente bisogno.


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