Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, la banca centrale tedesca, ha segnato di nuovo il territorio. In una intervista a Le Monde ha declinato ancora una volta il proprio credo: 1) la crisi non è finita; superarla significa correre una maratona e siamo a metà gara; 2) non c’è più un rischio percepito come imminente dai mercati, ma restano i problemi strutturali; 3) il primo problema è il debito, soprattutto quello pubblico; 4) una crescita sana viene dall’interno, dalla competitività e questo richiede tempo; 5) non esistono scorciatoie esterne, per esempio aumentando la spesa pubblica per spingere la congiuntura (quindi è sbagliato il percorso che vorrebbero intraprendere italiani e francesi); 7) la deflazione non è un rischio né imminente né generale; i prezzi scendono di più nei paesi in crisi; 8) l’euro non è sopravalutato. Nell’ultimo bollettino economico, la Bundesbank ha ribadito che c’è un rallentamento anche in Germania, ma sarebbe sbagliato rispondere ai problemi dell’eurozona con una politica monetaria espansiva, anche perché rallenterebbe il risanamento dei conti attraverso le riforme strutturali.
LA DIATRIBA BUBA-DRAGHI
La Buba, insomma, è in rotta di collisione con Mario Draghi. La Bce sta pilotando in basso l’euro con nuove iniezioni di liquidità alle banche (sperando che vadano anche a famiglie e imprese). E ha in programma operazioni più ardite, fino all’acquisto di titoli. Qui il contrasto con i tedeschi è massimo e mette in gioco anche gli interessi nazionali. Se venissero comprati bond (pubblici e anche privati) pro quota, il boccone principale andrebbe alla Germania, altrimenti verrebbe favorita l’Italia. In vista delle decisioni attese per i primi di settembre, il contrasto non può essere più forte. Fino a dove arriverà il braccio di ferro? Draghi vuole evitare di mettere di nuovo in minoranza la Bundesbank, ma i tedeschi sono pronti a bloccare ogni ipotesi di quantitative easing all’americana.
L’AMBITA POLTRONA DI DRAGHI
Si sta facendo strada, così, l’idea che sia già cominciato un duello il cui obiettivo è la poltrona di Draghi. L’ipotesi è stata sollevata da David Marsh, eurologo della prim’ora. Secondo il giornalista solitamente ben informato sulle manovre nell’Eurotower, Jens Weidmann morde il freno e non nasconde di voler diventare presidente della Bce. Il che potrebbe essere un bene perché solo lui, con tutti i crismi dell’ortodossia, potrebbe far digerire la svolta eterodossa della quale l’economia ha bisogno. Troppo machiavellico? Weidmann continua a negare le virtù di una politica monetaria permissiva, come abbiamo visto. Ma adesso guida la Bundesbank. Quando guiderà la Bce molte cose potrebbero cambiare. A indebolire questo scenario c’è che la scadenza del mandato è molto lontana (il 2019). Dunque, sono solo chiacchiere alimentate anche da ipotesi su un eventuale futuro politico di Draghi in Italia o in Europa? Magari non c’è nulla di vero né di urgente, ma l’importante è che se ne parli, qualcosa potrà sempre accadere. Anche perché s’aggiunge a un crescendo di critiche, polemiche, insofferenze che ha indebolito Draghi.
LA STORIA SI RIPETE?
Nell’agosto di tre anni fa fece tremare Silvio Berlusconi con la lettera firmata insieme a Jean-Claude Trichet (Draghi era ancora governatore della Banca d’Italia ma già scelto per guidare la Bce). Nel 2012 (ancora ad agosto) salvò l’euro e l’Italia guidata da Mario Monti: la catastrofe sembrava certa, la grande speculazione aveva scommesso fior di miliardi, ma le parole e gli atti di Draghi cambiarono il vento che spirava sull’Eurolandia. Adesso (sempre agosto, mese crudele, altro che l’aprile di T.S. Eliot!) è tornato a bacchettare, incitare, censurare i paesi che non hanno realizzato le riforme strutturali necessarie a uscire dalla lunga stagnazione nella quale l’eurozona è intrappolata. Tuttavia, questa volta le sue parole vengono accolte con scetticismo, con sufficienza, se non con aperta ostilità. Super Mario non è più super.
LA REAZIONE DI RENZI E PADOAN
Matteo Renzi ha preso male la reprimenda, tanto da precipitarsi in elicottero a Città della Pieve dove Draghi trascorre le sue vacanze. Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, ha rimproverato la Bce, chiedendole di fare il proprio dovere per impedire la deflazione. Insomma, medice cura te ispum. Paul Krugman, pur apprezzando il suo attivismo, ritiene che dovrebbe fare di più. Wolfgang Münchau sul Financial Times sostiene che ha basato la sua politica su un pessimo modello ed elenca gli errori della Bce. Federico Fubini sulla Repubblica precostituisce persino un alibi: sarebbe prigioniero della Bundesbank, anche se nel 2012 non ha esitato di andare avanti mettendo in minoranza la banca centrale tedesca. Ma c’è una differenza di fondo nell’analisi della crisi o una divergenza tattica sull’uso degli strumenti?
IL PERICOLO ITALIA
La spiegazione della crisi nell’eurozona ruota attorno a un comune denominatore: la perdita di competitività rispetto ai grandi concorrenti, gli Usa e il Far East. Alcuni, come la Germania, hanno fatto molto per adattarsi alle nuove regole del grande gioco, altri poco o nulla perché bloccati dai poteri corporativi (l’Italia), o illusi dal loro eccezionalismo (la Francia). Così l’Eurolandia ha aumentato i divari interni tanto che l’Italia s’è trasformata in un grave pericolo: il rischio mai fugato di un default porterebbe tutti a fondo. Di qui l’urgenza di accelerare le riforme che possono rendere il paese più competitivo.
IL PARADIGMA BCE VERO A META’
Il cambiamento, dunque, secondo la Bce, va fatto soprattutto dal lato dell’offerta; con un bilancio pubblico in ordine, si avrà meno spiazzamento del risparmio e più risorse per gli investimenti; con maggiore flessibilità nelle assunzioni e nei licenziamenti aumenterebbe anche la produttività. E’ un paradigma condiviso dai più, ma parziale perché Italia soffre ormai da almeno tre anni anche di una carenza della domanda interna. La Bce, insomma, ha sbagliato nel mettere in secondo piano l’effetto boomerang del crollo dei consumi interni.
IL CONTROVERSO CASO SPAGNOLO
Draghi sostiene che oggi stanno molto meglio i Paesi che hanno ingoiato completamente l’amara medicina della Bce. La Spagna, infatti, cresce a un ritmo superiore all’un per cento, anche se non riuscirà a recuperare molto presto il collasso degli ultimi anni. Fatto 100 il livello del Pil (prodotto interno lordo) nel secondo trimestre del 2008, quando iniziò la crisi, il livello in Italia oggi è 91, cioè in sei anni abbiamo perso il 9 per cento del reddito nazionale, un fatto straordinario; 93 in Spagna. Resta un mistero, d’altra parte, come faccia a svilupparsi un paese con il 26% di disoccupati, anche tenendo conto del mercato nero (dovrebbe essere ben superiore a quello italiano), e di un assistenzialismo anch’esso molto alto ed esteso.
I VANTAGGI DELLA GERMANIA
Dal lato opposto, la Germania che oggi non solo ha pienamente recuperato, ma è cresciuta del 4% rispetto ai livelli pre crisi, ha usufruito di alcuni fattori anomali che hanno spiazzato gli altri partner: per esempio essere considerata Paese rifugio per i capitali soprattutto dal 2010 quando scoppia la crisi greca; un mercantilismo ai limiti del dumping che ha gonfiato l’export e la bilancia estera, superando la soglia indicata dalla stessa Ue (6% pil); una compressione della domanda interna durata oltre il necessario; il mancato risanamento delle banche a cominciare dalla più grande, la Deutsche Bank nel mirino delle autorità americane che hanno adottato dopo la crisi controlli più stringenti rispetto a quelli europei.
BCE ATARASSICA
La realtà è che la Banca centrale europea non ha fatto tutto quello che era nelle sue possibilità all’interno del proprio mandato, non perché ha aiutato l’Italia a non fallire, ma perché non ha sostenuto la domanda (anche spingendo i governi che erano in grado di farlo ad adottare politiche fiscali espansive) e non ha bloccato la discesa generalizzata dei prezzi. Così la Bce è più debole e Draghi meno autorevole. Il target del 2% era stato stabilito dando per scontato che i prezzi interni dovevano scendere verso quella soglia non salire. Questi numeretti (2, 3, 60%) non sono leggi della scienza economica. Quel che conta davvero è come si muovono la domanda e l’offerta. Quando il prezzo, l’indicatore fondamentale del mercato, scende o sale in continuazione, vuol dire che c’è qualcosa che non funziona.
DRAGHI TROPPO POCO AMERICANO
La Bce non è stata troppo espansiva (all’americana), come lo accusano i tedeschi, ma semmai troppo poco. Anche la richiesta di ridurre la sovranità economica, così, perde forza. Ridurla per che cosa, per trovarsi intrappolati nella stag-deflazione? Draghi vorrebbe che al fiscal compact venisse accoppiato un reform compact, un accordo vincolante per realizzare le riforme strutturali. Ciò spinge molto in là (forse troppo) il mandato non solo della Bce ma della Ue i cui trattati non conferiscono alcun potere diretto sulle politiche economiche nazionali. Un patto del genere, inoltre, potrebbe funzionare solo se ci fosse vera reciprocità. Per esempio se i Paesi in attivo fossero d’accordo a reflazionare, cioè aumentare la loro domanda interna per sostenere la domanda estera dei paesi in deficit. Finora, la Germania, che si trova in queste condizioni, lo ha rifiutato nonostante i pressanti inviti rivolti dagli Usa, dal Fmi, dal G20.
CARO DRAGHI…
A questo punto, Draghi deve lanciare una chiara politica anti-deflazionistica. Da alcuni mesi dice che lo farà ma finora sono stati solo annunci. Se perde questa battaglia, il capolavoro di due anni fa non conterà più nulla. Ciò apre nuovi interrogativi anche sul futuro di una personalità di primo piano (una eccellenza italiana, come si dice) che ha goduto di un enorme potere in Italia come direttore generale del Tesoro e guida della politica di smantellamento dello stato imprenditore negli anni ’90 e dal 2006 al 2011 come governatore della Banca d’Italia. In Europa ha svolto, con astuzia e con coraggio, una funzione importante. L’abilità manovriera e l’autorevolezza non sono in discussione. Molti in Italia lo hanno accreditato come prossimo presidente della Repubblica. Ma chi lo voterebbe in questo Parlamento? Può diventare un’ultima risorsa se fallisce anche Renzi. C’è chi lo dice già, ma i super commissari non sono molto popolari e le soluzioni tecniche sono ormai consumate.
(la versione integrale dell’analisi si può leggere sul blog di Cingolani)