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Irak, tutte le differenze tra Obama e Bush

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori pubblichiamo il commento di Alberto Pasolini Zanelli, apparso su quotidiano Italia Oggi.

È anche con una soddisfazione maliziosa e malcelata che alcune voci si sono levate nelle ultime ore, negli Stati Uniti e all’estero, per plaudire, anche ironicamente, alla decisione di Barack Obama di ridare all’America un ruolo bellico attivo in Iraq. Le bombe che per ordine della Casa Bianca hanno cominciato a cadere sulle posizioni di una delle fazioni dell’attuale guerra civile araba assomigliano molto a quelle di cui il predecessore George W.

Bush aveva fatto uso così abbondante undici anni fa per abbattere un regime da decenni installato a Bagdad, raccogliendo una solidarietà internazionale molto larga e suscitando nel popolo americano un consenso quasi unanime; con l’eccezione di un giovane senatore arrivato da Chicago, di nome Barack Obama, ed esplicito quanto isolato nel deprecare l’iniziativa militare e nel pronosticarne il fallimento politico. Diventato presidente, Obama mantenne la promessa e provvide a staccare, sia pure cautamente, la spina alla massiccia presenza militare Usa in Iraq e in Afghanistan e venne insignito per questo di un premio Nobel per la pace un po’ troppo in anticipo.

Forse sarebbe stato meglio aspettare il giudizio dei fatti. Che però si prestano a diverse interpretazioni contrastanti, anche e soprattutto negli ultimi anni e nelle ultime ore. I fatti hanno dimostrato che abbattere i regimi, anche dittatoriali, in quella parte del mondo non serve a installare la democrazia, ma più spesso a indebolire le strutture fragili di stati privi di una vera base e aprire la via alle forze più estremiste. L’ultima spinta alla frammentazione politica del Medio Oriente è stata data da un intervento semi-militare simile nelle intenzioni agli obiettivi perseguiti da Bush: l’incoraggiamento e gli aiuti di ogni genere alle rivolte contro i dittatori tradizionali, dalla Libia di Gheddafi alla Siria di Assad.

La prima iniziativa ha installato al posto del dittatore il caos della guerra per bande; il secondo non solo è fallito (Assad è ancora al potere a Damasco tre anni e 170 mila morti dopo), ma ha contribuito a disgregare l’intera regione, cui sono rimaste aperte tre strade: la permanenza di un regime autoritario, il caos, il trionfo degli estremisti. È successo, anche al di là delle frontiere. In Siria le forze appoggiate dall’Occidente e dai regimi arabi «moderati» hanno fallito militarmente, ma hanno indebolito il regime di Damasco aprendo la strada alla penetrazione dei discepoli armati di Osama bin Laden. Non solo, ma dalle loro basi questi ultimi sono passati a invadere l’Iraq, a proclamarvi la resurrezione del Califfato e a farne discendere una persecuzione sanguinaria e demenziale di tutte le minoranze, razziali e soprattutto religiose.

A cominciare dai cristiani, che in gran parte avevano lasciato l’Iraq dopo l’abbattimento del dittatore «laico» Saddam Hussein, che per motivi suoi li proteggeva, e che si sono rifugiati in Siria sotto il manto di un altro dittatore. Ma anche a Damasco sono stati minacciati per primi da un pogrom integralista, quello che occupa oggi intere regioni della Siria e dell’Iraq e che, particolarmente in quest’ultima terra, sorpassa ogni esempio passato e ingiunge ai cristiani (e ai musulmani eretici) la scelta immediata fra la conversione o la morte. Già 100 mila sono stati cacciati dalle loro case e ora il genocidio incombe su un’altra «minoranza», i curdi, che nel dissolvimento dei paesi vicini hanno pescato l’occasione per raggiungere finalmente la sospirata e sempre frustrata indipendenza. Una parte si è rifugiata su una montagna e vi è assediata, minacciata di sterminio. Al punto che gli aiuti umanitari e i sostegni politici rischiano di non fare in tempo a salvarla perché non ci sono alternative, allora, a un ricorso alla mano militare.

Ed ecco il «pacifista» Obama che manda gli aerei a distruggere i cannoni degli assedianti e ridà un ruolo di combattimento, sia pure limitato, all’esercito Usa che egli ha appena finito di riportare a casa dall’Iraq e che sta per finire di rimpatriare anche dall’Afghanistan.

È l’inizio di un’ennesima guerra nel Medio Oriente? È certamente uno sforzo per limitare una nuova guerra che da tempo è in corso. Le milizie del Califfo costituiscono un pericolo per l’intera area molto peggiore delle dittature abbattute o minate. C’è dunque somiglianza fra le bombe di Bush e quelle di Obama: ma gli obiettivi ben diversi. Non si tratta, stavolta, di un tentativo di imporre la democrazia con le armi. Più modestamente è quello di evitare un male maggiore, un incendio di dimensioni da tempo dimenticate. Fra tutti i regimi possibili, fra tutti gli strumenti di potere la scimitarra del Califfo è il peggiore.



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