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Irak, è il petrolio il vero affare che divide i fronti

“Qualcuno mi ha detto: siamo nella Terza guerra mondiale, ma fatta a pezzi, a capitoli”: sono le parole di Papa Francesco, pronunciate in aereo, di ritorno dalla Corea del Sud. Aveva appena affermato che “è lecito fermare l’aggressore ingiusto”, ma che “nessun Paese può giudicare da solo”. Non è solo un richiamo alla necessità di coinvolgere l’Onu per fronteggiare l’ennesima puntata della nuova Grande guerra che sta divampando ad un secolo esatto dall’inizio del primo conflitto mondiale, e non è stata affatto una abdicazione alla teoria cattolica della guerra giusta, scivolando verso l’accettazione della immanenza dei giudizi e del positivismo giuridico nelle relazioni tra i popoli. Vi si legge, neppure velata, una sorta di censura verso l’unilateralismo della reazione americana che coinvolge, giorno dopo giorno, anche l’Unione Europea. In questa chiave va letta la visita svolta ieri del Premier italiano Renzi ad un campo profughi in Iraq: la Presidenza di turno dell’Unione impone un ruolo attivo,soprattutto dopo la candidature del Ministro degli esteri Mogherini al ruolo di Alto Commissario.

Le tensioni di questi mesi sono legate da un filo rosso: è in corso una aspra confrontation tra Usa e Russia, che si gioca sul piano politico, militare ed economico. In Ucraina, è ben noto, la questione dirimente è stata rappresentata dall’annessione della Crimea da parte di Mosca: una decisione indispensabile la Russia, volta a salvaguardare la presenza della flotta nel Mar Nero, di stanza a Sebastopoli. È stata la risposta al pressing svolto dall’Unione europea nei confronti di Kiev, finalizzato a creare relazioni di amicizia che sono suonate sospette a Mosca, ed ai movimenti di piazza che hanno destituito il governo filo-russo. Anche in Siria, dove si è registrato il fallito sostegno occidentale alla variopinta dissidenza contraria al regime siriano di Assad, è in corso una partita volta ad eliminare un alleato della Russia, che mette in pericolo la presenza navale russa, stavolta nel Mediterraneo, con base a Tartus. Hillary Clinton, Segretario di Stato nel primo quadriennio della Presidenza Obama, non ha nascosto di recente il suo netto dissenso per il passo indietro compiuto dall’Amministrazione americana, quando ha fermato un’offensiva militare già lanciata per ragioni umanitarie, visto l’uso di gas contro i civili: il “red tape” di Barak Obama si era dimostrato poco più di un elastico.

D’altra parte, erano comunque guerre di contenimento nei confronti di Russia e Cina, quelle decise da George Bush Jr., prima in Afganistan e poi in Irak, pur essendo volte a debellare il terrorismo islamico ed a coprire le spalle ad Israele dal potenziale bellico di Saddam Hussein.

La partita che si sta giocando in Iraq segue la stessa trama: l’appoggio americano, europeo ed ora anche italiano, alle forze curde non ha solo la finalità di armare una comunità capace di sconfiggere l’Isis, la sigla con cui si presenta il Califfato islamico, ma è soprattutto prodromica ad una più ampia autonomia dell’area settentrionale dell’Iraq, in cui le risorse petrolifere sono un asset fondamentale. Il petrolio dell’Iraq, dopo anni di embargo e di limitazioni nei confronti del regime di Saddam Hussein e dopo la stasi per la lunga guerra, potrebbe fluire finalmente senza ostacoli verso l’Europa, attraverso la Turchia. È una risorsa ampia, a basso costo, alternativa alle fonti energetiche russe, nelle mani di una comunità, quella curda, che dovrà tutto agli Usa, autonomia politica e ricchezza economica. Le navi russe rimangono a Sebastopoli ed a Tartus, ma a dondolare. Siamo sempre alla politica delle cannoniere: gli eserciti servono solo se presidiano i mercati.


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