Di articolo 18 si parla da anni, a ondate ricorrenti. Ciò nonostante, in questo dibattito a singhiozzo continuano a farla da padrone idee imprecise, quando non sbagliate, e parole fuorvianti. Gran parte dell’opinione pubblica non è quindi in condizione di comprendere di cosa si stia veramente discutendo.
In particolare, mi riferisco al contenuto dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300. In genere si pensa che quest’articolo impedisca i licenziamenti. Ma non è così. Il 10 agosto Guglielmo Loy, segretario nazionale della Uil, ha ricordato che, nel solo 2013, in Italia ci sono stati 900.000 licenziamenti. Dopodiché si è chiesto polemicamente: “Pochi?”.
Il fatto fondamentale, ma ignorato dai più, è che ben prima che l’articolo 18 vedesse la luce, il diritto del lavoro, nel nostro paese, aveva operato una distinzione fra licenziamenti individuali e licenziamenti collettivi. Ed è bene dire subito che l’art. 18 si riferisce unicamente ai licenziamenti individuali.
Ora chiediamoci: cosa sono i licenziamenti collettivi? Sono quelli che hanno una motivazione economica. Qualche esempio. Un’azienda produce un prodotto o un servizio la cui domanda, a causa di una crisi economica generale, è strutturalmente caduta. Deve quindi ridurre la sua attività e, perciò, anche il numero dei propri addetti. Oppure: un’impresa opera su due linee di prodotto quando, a causa di mutamenti nel mercato, crolla la domanda di una sola delle due. Risultato: l’impresa chiude il reparto coinvolto dalla crisi e manda a casa i dipendenti che lì operavano. Terzo caso. Un’azienda mantiene le sue produzioni, ma introduce innovazioni tecnologiche labour saving. In pratica, per produrre la stessa quantità di cose servono meno lavoratori. Quelli in più vengono allontanati.
Ebbene, in tutti questi casi l’articolo 18 non entra minimamente in gioco. Seguendo quanto disposto da una legge di vent’anni successiva, varata nel luglio del 1991, l’azienda in questione mette quel determinato numero di suoi dipendenti in mobilità. In pratica, li licenzia. Dopodiché questi lavoratori, ormai formalmente suoi ex dipendenti, riceveranno dallo Stato, per un periodo limitato, un’indennità pari alla Cassa integrazione.
Non è dunque vero che l’articolo 18 impedisca alle imprese di effettuare licenziamenti collettivi. Ma allora, qualcuno potrebbe chiedersi, a cosa serve questo famoso art. 18? Semplice: serve a disincentivare le imprese dal compiere licenziamenti illegittimi.
Fino alla metà degli anni 60, per le imprese era possibile effettuare il cosiddetto licenziamento ad nutum. In pratica, bastava che il capo del personale indicasse la porta a un dipendente con un cenno, perché il malcapitato si ritrovasse, come si suol dire, in mezzo a una strada. E di questa potestà le imprese fecero largo uso negli anni 50, colpendo essenzialmente militanti sindacali della Cgil; i quali, spesso, erano anche iscritti al Pci o al Psi.
Nel luglio del 1966, in pieno Centro-sinistra, fu approvata la legge n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, che stabiliva invece che tali licenziamenti possono essere effettuati solo per “giusta causa” o per “giustificato motivo”. Insomma, per licenziare un lavoratore è necessario che quest’ultimo, a causa dei suoi comportamenti, abbia fatto venir meno il rapporto di fiducia in base a cui l’impresa lo ha assunto. Ad esempio, con assenze prolungate oltre i limiti previsti dai contratti, oppure per aver rifiutato le direttive dell’impresa, o ancora per aver messo in atto comportamenti violenti o fraudolenti.
Questa legge, ancorché decisiva sul piano giuridico, non ebbe grandi effetti pratici. Infatti, se un’impresa voleva liberarsi di un dipendente che fosse stato, allo stesso tempo, un lavoratore irreprensibile e un fastidioso attivista sindacale, lo licenziava comunque, salvo poi a doverlo indennizzare. Nel 1970 l’art. 18 stabilì, invece, che quando un giudice avesse riconosciuto il carattere illegittimo di un licenziamento, in quello steso momento tale atto veniva considerato nullo. Per conseguenza, il lavoratore veniva reintegrato nel suo posto a far data dal momento della sua cacciata e l’azienda, oltre a subire una visibile sconfitta, doveva pagargli gli arretrati retributivi e previdenziali. Quindi, meglio evitare.
A parte le modifiche limitative effettuate sotto il governo Monti, il nodo dell’art. 18 è sempre lo stesso: se il potere della proprietà sui dipendenti nei luoghi di lavoro debba essere assoluto, oppure limitato dalla legge in modo tale da consentire ai lavoratori un certo grado di libertà, specie in materia sindacale.
@Fernando_Liuzzi
(Da: “Cronache del Garantista”, mercoledì 20 agosto 2014, p. 14/commenti)