Nell’ultima consultazione generale – quella del 25 maggio per eleggere i deputati italiani al parlamento europeo – non si può dire che le liste di centro (e di destra) abbiano raccolto molti consensi. Né si può affermare seriamente che quelle liste siano tutte degli spezzatini, dei rimasugli dello schieramento che, nelle politiche per la XVI legislatura, avevano come proprio leader – carismatico o meno – Silvio Berlusconi.
Logica avrebbe voluto, anche per cominciare a dare una risposta in positivo alla metà di elettorato (abbondantemente di centro) che si è astenuta, che partiti, partitini, partitelli e personaggi isolati ma che si sentono portatori di progetti salvifici, si dessero da fare per tentare di superare le divisioni antiche e recenti, puntassero a riaggregazioni non improbabili e neppure impossibili e ricorressero a tutta l’umiltà di cui sono capaci per ricercare un modello unitario attorno al quale ricercare i milioni di voti che se ne sono andati, ma che potrebbero tornare dinanzi ad una offerta politica degna di essere prescelta.
E, invece, siamo subissati da una quantità enorme di persone – di cui nessuno osa mettere in dubbio l’onesta d’intenti – che si autopromuovono come candidati alla leadership del centro. Come se la questione sul tappeto fosse quella della eredità giacente del berlusconismo, e non, invece, un’altra: l’assenza di un progetto alternativo ai velleitarismi di gruppuscoli disaggregati e ridotti a mero ceto politico (cioè privi di reale rappresentanza), dinanzi alla possente realtà di un renzismo che raccoglie il 42,3 per cento dei consensi nel più recente sondaggio demoscopico e di un grillismo che non si schioda da una quota comunque superiore al 20 per cento, malgrado le enormi sciocchezze da quella setta dette in tema di terrorismo islamico.
Siamo ultimamente inondati di iniziative promosse dai vari gruppi di centro preannuncianti fusioni parlamentari presentate come grandi operazioni politiche. Con tanto di rispetto per gli Alfano, i Quagliariello, i Cesa e altri virtuosi esponenti di centro, non è che la somma degli aggreganti aggiunga qualcosa agli attuali rapporti di forza parlamentari e politici. Anzi, almeno a stare all’ultimo sondaggio, Ncd e Udc (che avevano superato con un colpo di reni il quorum del 4 per cento il 25 maggio), oggi raccoglierebbero una percentuale ancora più bassa: il che non è proprio promettente per le ambizioni alternativiste di cui si mena vanto. Può darsi che mi sbagli, e che, d’improvviso, a Chianciano o altrove, un clima festaiolo possa fare il miracolo di moltiplicare i consensi e spingere alle urne regionali della prossima primavera folle di popolo contrite che tornino a sognare nuovi ancoraggi appaganti.
Tanto più che Berlusconi, accortamente silenzioso per tutto agosto, non se n’è stato con le mani in mano: ha studiato dossier economici alternativi a quelli della cerchia renziana; preannuncia il varo di un’alta scuola di studi vera, di lunga durata, con alle spalle centri di ricerca, non chiacchiere da Transatlantico; e, soprattutto, cerca di formare nuovo ceto politico-amministrativo mai sperimentato, ma neppure gettato allo sbaraglio. Ed è da dimostrare che il gruppo più piccolo possa fagocitare il più grande. Nel momento in cui l’annuncite renziana comincia a perdere colpi e, dentro il Pd si rimettono in discussione il doppio incarico di Renzi e le piccole cose sin qui realizzate dal suo governo, i troppi galletti che s’intestano la rappresentanza del centro farebbero bene a non attribuirsi potenzialità che non possiedono, provvedano ad analisi più serie della condizione italiana, rifuggano dagli orgogliosi egoismi e indichino progetti e programmi alternativi alla sinistra, ma possibili.