Si può fare politica scrivendo di storia, se hai carta e penna lo puoi fare ovunque, anche in un paese “straniero ma non estraneo”, seduto a un lungo tavolo di legno ingombro di carte, libri, fotocopie e ritagli di giornale, avvolto nella solitudine e nell’interminabile silenzio rotto solo dal canto lontano di un muezzin che richiama alla preghiera.
Si può amare a tal punto la Storia da non rassegnarsi all’idea che essa possa venire cancellata, mistificata, scritta in modo incompleto e inesatto. E si può rimanere così intimamente legati al proprio Paese da riuscire, pur nell’amara e dolorosa lontananza, a cogliere i dettagli, a interpretare in maniera corretta gli avvenimenti, a intuirne l’evoluzione.
Nell’ultima, breve stagione della sua vita trascorsa al di là del mare, Bettino Craxi dedica all’Italia pagine struggenti in cui rabbia, amore, speranza e rassegnazione sono tessere di un unico mosaico che lentamente si compone, seguendo il filo di una narrazione che fuoriesce dalla torre d’avorio diroccata e cadente di un vecchio sistema partitico e procede parallela con l’aggrovigliarsi delle contraddizioni, l’esasperata conflittualità politica, gli scontri istituzionali, la profonda crisi di fiducia dei cittadini nei confronti della classe dirigente emersa dalle macerie di una “Prima Repubblica” che sopravvive a se stessa “nei travestimenti della cosiddetta Seconda”.
Pagine che offrono al lettore l’analisi dell’evoluzione di una “democrazia difficile” e allo stesso tempo “incompiuta”, di un nuovo corso politico che nasce pagando il fio di posizioni “demagogiche” la cui incidenza risulta ancor più evidente nel vuoto di elaborazione ideale e programmatica, lo scenario insomma meno adatto a dare fiato e concretezza a un diverso assetto sistemico, per giunta a Costituzione pressoché invariata.
La “Seconda Repubblica” vista attraverso le lenti dei grandi occhiali di Bettino Craxi è lo specchio di un paese che ha sventolato trionfante la bandiera del “nuovismo” ma che ora sembra aver
smarrito “la strada verso il futuro nel quale aveva riposto speranze
e illusioni”.
Le troppe incognite che gravano sull’Italia in piena recessione economica, con tassi di disoccupazione a livelli record, i conti pubblici tutt’altro che in ordine, la pressione fiscale enormemente accresciuta, rendono difficile fare professione di ottimismo.
Seppur da lontano, l’ex leader socialista percepisce le difficoltà di un paese in preda alla sfiducia e al disorientamento, mentre sullo sfondo si stagliano scadenze cruciali come ad esempio l’adozione di una moneta unica con la quale l’Europa si prepara, forse illudendosi, alle sfide del nuovo mondo globale.
Spetta alla politica il compito di attuare le misure urgenti per fronteggiare una situazione di vera e propria emergenza, e offrire una reale e convincente prospettiva di progresso e di sviluppo
alla società italiana in crisi.
Ma ecco il nodo di fondo: la politica è ancora in grado di assolvere a questa importante funzione? I partiti sono capaci di compiere le scelte davvero qualificanti per il futuro del paese?
All’interrogativo di certo complesso, Craxi risponde chiamando in causa una “falsa rivoluzione” giocata su “nuclei della magistratura e dell’informazione”, cui avrebbero dato manforte, nella convinzione di trarne vantaggio, gruppi politici, importanti lobby economiche, grandi realtà finanziarie.
Il finanziamento irregolare o illegale della politica utilizzato come grimaldello per far saltare un intero sistema, i “processi sommari” in piazza o in televisione, la sistematica violazione del segreto istruttorio, gli avvisi di garanzia trasformati in preventive sentenze di condanna: tutto ha concorso a dar vita a uno “spettacolare processo” storico e politico ai partiti che per mezzo secolo hanno governato l’Italia.
Non c’è dunque da meravigliarsi, chiosa l’autore, se dopo essersi piegata ad altri poteri la politica ha abdicato al proprio ruolo, finendo anche per consegnare il governo nazionale in mano a personalità “tecniche” non elette dai cittadini, il che segnala quantomeno la “dispersione della sovranità popolare” e l’esaurimento della forza propulsiva espressa dalle stesse leadership partitiche.
E se la politica, pur con le sue brutture e convenienze, è “un’arte umana piena di fascino e di nobiltà”, appare difficile rassegnarsi all’idea che essa non riesca più a convertirsi in un’azione di governo in grado di misurarsi con le istanze e i problemi concreti dei cittadini.
In ogni caso c’è da augurarsi che si possa giungere un giorno a fare breccia nel muro delle “falsità” che ha coperto un intero periodo della storia democratica italiana, perché sulla base di una “falsificazione sistematica” del passato nessuno costruirà un bel nulla: “Se la Seconda Repubblica dovesse nascere sulla criminalizzazione della Prima, nascerebbe su di una menzogna”.
Così Bettino Craxi si sforza di ricostruire i passaggi più controversi per “mettere le cose al loro giusto posto”, con toni polemici e sarcastici accompagna ogni ammonimento, e nel suo invocare una “operazione verità” traspaiono al contempo la sofferenza e il travaglio derivanti da una nuova condizione esistenziale.
Si interroga, scava nei ricordi, medita sugli errori che ogni essere umano, chi più chi meno, porta con sé, ripercorre le vicende che hanno lacerato il tessuto dei rapporti con avversari e compagni di un tempo con i quali ha condiviso un’intera vita politica costellata di vittorie e di sconfitte, ma fatta comunque di grandi battaglie ideali. Dà sfogo ai sentimenti attraverso una forma d’arte concettuale che si intreccia con la satira nella composizione delle litografie dedicate al ceto dirigente della “Prima Repubblica” trasmigrato senza colpo ferire ai vertici della “Seconda”.
Il pensiero corre sempre all’Italia, quell’”Italietta caotica” dalla patologica propensione all’ingovernabilità, che nella seconda metà degli anni Novanta si è di certo accentuata con il risultato di sfilacciare ogni preteso brandello di rinnovamento, e allora ecco i vasiin ceramica dipinti con strisce di colore rosso e verde che scendono giù come lacrime lungo il fondo bianco: “L’Italia che piange”.
E poi scrive, anzi la scrittura è l’unico strumento a disposizione per impedire che sul “caso Craxi” cali inesorabile l’oblio. Ma si tratta di un’arma spuntata, se il più delle volte gli articoli o le dichiarazioni fatti recapitare via fax alle redazioni dei grandi giornali nazionali finiscono inesorabilmente “nei cestini della carta”.
“Quest’uomo non deve parlare”, protesta l’ex segretario del Garofano, determinato a prendere di petto la mancata “obiettività e completezza dell’informazione” ricorrendo ad altri canali attraverso i quali veicolare i propri messaggi. Strumenti certo meno efficaci e comunque estranei al grande pubblico: il quotidiano “L’Avanti!”, con la “L” anteposta forse a segnare la discontinuità con il passato, che riapre i battenti nel marzo 1997 segnalandosi come “foglio” quasi clandestino di lotta e testimonianza socialista, la rivista “Critica Sociale”, il settimanale bellunese “Settegi Dolomiti”, il mensile bilingue sardo-italiano “Sa Repubblica”.
Poco importa che questo attivismo venga giudicato “eccessivo e quasi comico”: Craxi è un osservatore critico e curioso delle vicende italiche, che sente il bisogno di “verità” per liberarsi da quel senso di solitudine dovuta a un “complesso di viltà, opportunismi, calcoli”, che per rimanere vivo avverte la necessità di non recidere il legame con la sua “patria lontana” cui però fa sempre più fatica, con il trascorrere del tempo, a dare un volto e un’anima.
E nessuno può impedire a un uomo che ha fatto della politica una ragione di vita, di indicare una rotta e di proporre le sue ricette per superare la “babele dei linguaggi” in materia di ammodernamento istituzionale, di risanamento economico, di definizione di un progetto di riforma del sistema giudiziario necessario in primo luogo a ristabilire un giusto equilibrio tra i poteri dello Stato, perché un’azione di giustizia “non sarà mai tale se viene inquinata da pregiudiziali politiche”.
“Hammamet è una pistola puntata contro l’Italia, è una canzone buffa di Paolo Rossi, è una metafora del potere, è un fax stralunato, ma è soprattutto, Hammamet, una storia italiana di fine regime”, scrive nel novembre 1995 il giornalista Filippo Ceccarelli.
Ma Hammamet è anche altro: un nuovo inizio, il tentativo, magari illusorio, di riallacciare un legame spezzato con tanta parte dell’opinione pubblica italiana orfana di punti di riferimento politici, sociali, istituzionali e culturali, il disperato sforzo di aggredire quei pregiudizi che si vanno sedimentando nell’immaginario collettivo di un paese frustrato e insoddisfatto.
È anche il crocevia, Hammamet, di una lunga transizione che, iniziata con lo sgretolamento del sistema politico di cui il leader del Psi fu indiscusso protagonista, non si è ancora conclusa; e chissà se la politica, dopo essersi imbattuta nella “rottamazione”, riuscirà a riappropriarsi, per dirla con Craxi, dell’”ambizione di ciò che potrebbe e dovrebbe essere”, riuscendo finalmente a compiere dei passi in avanti nell’assunzione dell’orizzonte del mutamento istituzionale per costruire il pavimento comune della “terza fase” della Repubblica, dopo la manifesta incapacità, per calcolo o miopia, di eleggere un capo dello Stato, dovendo in ultimo affidarsi al senso di responsabilità del presidente uscente per evitare un micidiale cortocircuito istituzionale.
Questo libro non rappresenta solo un tuffo nei ricordi del passato, né tantomeno può esaurire il senso complessivo della vita di Bettino Craxi.
Le pagine seguenti aggiungono però nuove sfaccettature alla personalità di un uomo la cui parabola si lega alle contraddizioni di una Nazione intera, e che, pur collocato nella dimensione storica, aleggia ancora sulla cronaca politica del paese.
Che possa servire da insegnamento alle nuove generazioni, che di Bettino Craxi sanno poco o nulla, e a quelle vecchie che di lui ritengono di sapere tutto, e che forse troppo in fretta ne hanno fatto “un capro espiatorio che libera dalle colpe collettive”.