Replicando a una mia lettera, il direttore del Foglio Giuliano Ferrara ha paragonato l’abolizione dell’articolo 18 al taglio dei tre punti della scala mobile decretato dal governo Craxi trent’anni fa. Ambedue dagli effetti limitati nei rispettivi campi di applicazione, ma altamente significativi sul piano simbolico.
In politica i simboli contano, naturalmente. Servono a definire forze, schieramenti, strategie, amici e avversari. Possono perfino segnare un passaggio d’epoca nella vita di una nazione. In Italia, così è stato con l’introduzione del criterio maggioritario nel sistema elettorale. Almeno nelle intenzioni dei suoi fautori, così deve essere con l’introduzione della “flexicurity” nel sistema di welfare domestico.
Il contratto a tutele crescenti su cui in questi giorni si stanno versando fiumi d’inchiostro (anche perché non è ancora chiaro cosa sia) è solo un capitolo del Jobs Act in esame al Senato, e forse nemmeno il più importante.
Infatti, il modello danese a cui Matteo Renzi ha dichiarato di volersi ispirare indica una combinazione tra forte flessibilità nel rapporto di lavoro e forte sicurezza nel mercato del lavoro. I due aspetti sono inseparabili. Nel Paese scandinavo c’è una disciplina dei licenziamenti permissiva in quanto ci sono ammortizzatori sociali tra i più robusti del Vecchio continente. L’accettabilità della prima deriva dall’efficacia dei secondi.
Più in generale, il successo del modello danese (che pure presenta elementi critici che qui non è possibile illustrare) è legato ad alcune condizioni basilari: la notevole mole di risorse pubbliche impiegate; lo spirito di collaborazione tra le parti sociali; una struttura produttiva decisamente orientata all’innovazione.
La “flexicurity” di cui godono i conterranei di Amleto, insomma, è frutto di un processo nel corso del quale si è consolidato un “compromesso storico” tra elevati livelli di tassazione e generosi sussidi per la formazione e l’occupabilità dei lavoratori.
Da noi quale spazio c’è per un simile compromesso? Le tasse non si possono aumentare e, anzi, vanno drasticamente ridotte. Se poi si vuole il contratto a tutele crescenti (con la cancellazione o la sospensione temporanea dell’articolo 18, è un’alternativa a cui non vale la pena impiccarsi), prima occorre spendere di più e meglio per rendere universali e dignitosi tanto i trattamenti di sostegno al reddito quanto i servizi per l’impiego.
Non resta, allora che una strada: tagliare la spesa, e in misura assai cospicua, da qualche altra parte. Resta questa la cruna dell’ago del riformismo del presidente del Consiglio, molto verboso ma per il momento molto inconcludente.