Il vento è cambiato, ed era ora. Sul rito ambrosiano, sui rapporti tra pubblici ministeri e stampa, che hanno fatto il bello e soprattutto il cattivo tempo dai tempi di Mani pulite, dando vita a un circuito giudiziario e mediatico in cui nessuno riesce mai a capire se si tratta solo di accertare la commissione di reati, ovvero di manovre politiche e finanziarie che strumentalizzano il versante penale e l’obbligatorietà della azione penale da parte dei pubblici ministeri, il premier Matteo Renzi ieri ha messo la parola fine.
Affermando che «rispettiamo le sentenze, ma non consentiamo a nessuno scoop, a nessun avviso di garanzia più o meno citofonato ai giornali, di mettere in difficoltà migliaia di posti di lavoro» ha fatto un chiaro riferimento alla vicenda della mega tangente, che sarebbe stata pagata dall’Eni per aggiudicarsi una licenza per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero in Nigeria, e ancora di più a tutto quanto c’è di poco chiaro nel copione che ancora una volta si sta recitando, visto e rivisto ormai decine di volte.
Allo scoop del Corriere della Sera, con tanto di richiamo al sequestro di una somma ingente già operato da un magistrato londinese, è subito seguito il «coro dei dubitanti», coloro che per mestiere non si spingono all’approfondimento di una questione giudiziaria, soprattutto quando è intricata, e neppure si ergono mai a paladini di una tesi, giustizialista o garantista che sia.
Colgono, invece, l’occasione dell’indagine per rimettere in discussione le scelte operate dal governo nel nominare i vertici delle nostre imprese pubbliche, per rammentare i rischi della continuità nelle catene di comando e soprattutto per citare le relazioni personali che sono state intrattenute, anche se casuali. Basta che una persona abbia lavorato in un Paese africano, con l’aggravante se l’ha fatto per anni; basta aver ricevuto una lettera da parte di una persona coinvolta in altre vicende giudiziarie per mettere in discussione la moralità del dirigente indagato: sono macchie da cui non potrà discolparsi.
Non si discute più dell’ipotesi di reato, ma della legittimazione a ricoprire ancora il ruolo di vertice. L’azienda intera si paralizza, magari cede in Borsa: il gioco è fatto. Con le crisi e le incertezze che investono i rapporti nei Paesi in cui l’Eni ha relazioni cruciali per l’approvvigionamento energetico del nostro Paese, dalla Libia all’Ucraina, dall’Irak alla Russia, con i conflitti che si giocano sul piano della disinformazione, non sono ammissibili né ingenuità né superficialità. Soprattutto quelle finte.