Pubblichiamo un articolo uscito su Formiche 79 – marzo 2013
A quasi tre anni di distanza, mi pare di rivederla, la mia California: Moffett Field, Basa Nasa “Richard Ames”. Ho trascorso laggiù la mia estate 2010, all’ombra del colossale hangar a forma di gianduiotto per dirigibili Zeppelin, a pochi passi dalla sede di Google e da Stanford. Ero uno studente un po’ sui generis, come tutti gli individui ammessi al “Graduate Studies Program” della neonata Singularity University. Un geniale, folle aggregatore di idee e tendenze futurizzanti, annidato nel cuore pulsante della Silicon Valley e sostenuto da alcuni dei nomi più pop della zona (Google, Cisco, Autodesk, Kleiner Perkins, ecc). Un’organizzazione dedicata a illustrare e diffondere le innovazioni esponenziali che potranno contribuire a risolvere alcune piaghe globali e a scardinare paradigmi ormai vecchiotti.
D’altra parte alla Singularity il vero tema dominante è il cambiamento. E, a differenza della storia – che studia i cambiamenti avvenuti nel passato – o del giornalismo – che descrive il cambiamento nel presente – è soprattutto la scenaristica a tenere banco. Si tratta della disciplina che prova a immaginare futuri alternativi, a partire da combinazioni di tendenze già in atto o appena larvali, nella consapevolezza che è impossibile prevedere il futuro e che è meglio ragionare su una rosa di scenari alternativi. Compresi quelli in cui alcune innovazioni sono esponenziali anziché lineari, e la curva che descrive graficamente la loro accelerazione si impenna, come nel celebre primo enunciato di Moore: “Le prestazioni dei processori, e il numero di transistor ad esso relativo, raddoppiano ogni 18 mesi”.
L’atmosfera di Singularity University è molto particolare: lunghe ore ad ascoltare oratori brillanti e mai banali, notti in bianco a sperimentare nell'”Innovation lab” – chi a montare robot, chi a disegnare e stampare cuori tridimensionali con gli infernali scatoloni di Makerbot – furibonde litigate nei progetti di gruppo – corollario inevitabile di troppe primedonne costrette a collaborare – sveglie di soprassalto perché l’alzabandiera dei marines rintocca alle prime luci dell’alba, muffin immangiabili, feroci partite di calcio tra “latinos”, jogging nelle paludi guardando la torre della Hoover Institution. Quella dove si è fatta le ossa Condoleeza Rice, il primo segretario di Stato donna di colore degli States.
Rieccola, la mia estate del 2010. Lontano da spiaggia e asciugamano. Vicino, molto vicino a uomini di cui avevo solo letto libri o interviste, nel migliore dei casi visto filmati qua e là su You Tube. Ray Kurzweil (il grande mentore di Singularity, nella foto), Vinton Cerf, Bob Metcalfe, Larry Page, John Gage o Peter Diamandis. L’elenco é lunghissimo, tutti parlano liberamente, discutono, montano e rimontano enormi edifici di idee e ambizioni. Ce n’é per tutti i gusti: l’astronauta che vuole a tutti i costi uscire di nuovo dagli angusti confini terrestri, il giovane gesuita che per anni ha fatto il missionario in Africa, lo hacker che ha scassinato sistemi informatici di tutto il mondo, il pilota di droni da combattimento, il filosofo, la designer di moda, l’attivista sociale, la chimica, l’imprenditore seriale, la bio-artista. Tutti ossessionati dal loro demone interiore, dal tarlo che li divora: fare, capire, fare, disfare, andare più su, più in là, oltre.
A lezione gli appunti non si prendono come ero abituato a (non) prenderli, con carta e penna. Si usa EtherPad, un software collaborativo con cui più soggetti possono prendere appunti e fare commenti simultaneamente, le lezioni sono seguitissime, sezionate, registrate, rimuginate e ricombinate. Il commitment dei partecipanti é totale, l’interesse altissimo, lo spirito quasi agonistico. Poco importa se il rancio del “Barcelona Café” è a dir poco disgustoso, la guarnigione di polizia all’interno della base distribuisce multe come se piovesse, la videoteca della Nasa Lodge non é aggiornatissima. La base non mette proprio allegria, la guerra fredda é finita da un pezzo e senza sovietici con cui fare la corsa allo spazio anche i fondi federali per la Nasa scarseggiano: si vede. San Francisco é vicina ma non troppo (40 minuti di guidata per i pochi che sono riusciti a munirsi di macchina), Palo Alto o San Jose sono a pochi metri ma non offrono grandi attrattive turistiche nelle poche ore libere dei fine settimana. Qualcuno si avventura fino a Half Moon Bay, qualcun altro osa raggiungere Laguna Seca, altri prediligono Monterrey o Carmel. Tutti presissimi a leggersi sui tablet gli appunti della settimana, a scambiarsi chicche o filmati inediti. Il pannello fotovoltaico é roba vecchia, meglio occuparsi del solare spaziale – satelliti pieni di pannelli che “ciucciano” raggi solari e li irradiano sulla terra – o di altre diavolerie. Basta magazzini e filiere di distribuzione lunghe, i pezzi di ricambio te li disegni e te li stampi in casa a prezzi bassissimi. Hai fame e vorresti qualche gustosa proteina ma la mucca Lola ti fa pena? Sintetizzati una bistecca e la Lola camperà tranquilla!
A sentirli, i singularitiani, nulla è impossibile, nel loro mondo non esistono o quasi gruppi di eternamente scettici, stormi di lobbisti che manovrano o condizionano istituzioni e governi, ogni banca ti fa credito e ogni governante non potrà che ascoltarti. È un mondo buffo, una via di mezzo tra Luciano di Samosata, il Barone di Munchausen e Blade Runner, a volte fa sorridere, altre volte lascia perplessi. Ma è il mondo delle idee, magnifiche eppure così fragili, è un indomabile destriero dalle mille gambe che tutto travolge e sconvolge. A Moffett Field, all’ombra del gigantesco hangar-gianduiotto.
Francesco Galietti è scenarista indipendente, fondatore e Ceo di Policy Sonar