Il testo del Jobs Act, la legge delega sul lavoro, approda domani in aula al Senato. Si parla dell’articolo 18 e di semplificazione dei contratti di lavoro. Si parla anche di un codice unico del lavoro sulla falsariga del progetto elaborato da 250 esperti e ricercatori sotto la guida di Pietro Ichino e Michele Tiraboschi. Non si trovano però i mestieri introdotti dal post fordismo e della rivoluzione tecnologica. Non si parla del lavoro autonomo. Non vi è traccia delle traiettorie lungo le quali si muove la grande trasformazione del lavoro contemporaneo.
Non c’è da stupirsi quindi se il dibattito politico e sindacale si stia riducendo ad uno scontro interno ad un partito. Il terreno del lavoro è diventato il campo di battaglia per una resa dei conti da tempo attesa nel Partito Democratico.
Ma sono proprio i temi che il Jobs Act affronta che consentono questo scontro.
Stupisce invece, la grande distanza con la realtà del lavoro contemporaneo. Questo fa si che a fronte di una disoccupazione giovanile del 43% si reagisca ampliando la forbice che separa insider e outsider, prefigurando proprio l’apartheid che viene mediaticamente denunciata.
Attraverso l’eliminazione dell’articolo 18 per i neoassunti si rischia infatti di favorire uno stallo nel mercato del lavoro che è tutto l’opposto del dinamismo che potrebbe riattivarlo: da un lato coloro che mantengono le tutele dello Statuto dei lavoratori, e che mai vorranno ora lasciare il loro posto di lavoro perdendole, dall’altra i neoassunti per i quali queste tutele non valgono.
Un sistema vecchio, che ai giovani non interessa più, attenti più ad altri tipi di tutele e flessibilità: la possibilità di lavorare dovunque attraverso smartphone sempre connessi, la possibilità di accrescere le proprie competenze sul luogo di lavoro, la garanzia che avviare una propria attività non sia l’inizio di una eterna battaglia con la burocrazia ecc.
Sarebbe stata preferibile a questo punto una eliminazione completa dell’articolo 18. Sia chiaro, non per sostenere la tesi che ciò avrebbe miracolosamente generato assunzioni, ma perché sarebbe stato un segnale forte di coscienza della grande trasformazione. Il significato sarebbe stato: il contratto a tempo indeterminato è auspicabile, ma non è più la cifra della dipendenza contemporanea. La vecchia fabbrica fordista non esiste più e il lavoratore sarà sempre di più colui che nella sua vita affina le competenze lavoro dopo lavoro. L’attività lavorativa è sempre più parte della costruzione della persona, e non più solo un mezzo di sussistenza.
Altro campo nel quale poteva giocarsi una vera modernizzazione era quello della flessibilità delle mansioni. Anche in questo caso il Jobs Act sembra giocare al ribasso, consentendo una flessibilità molto ridotta. Questa non è sufficiente a rompere i giochi delle declaratorie dei contratti collettivi nazionali che descrivono profili professionali fermi agli anni settanta.
Scrivere tutto questo il giorno dell’inizio della discussione in aula vuole essere un contributo al dibattito di chi non considera chiusa la partita. È inutile riaccendere scontri ventennali per ottenere una riforma nata vecchia. Ci auguriamo che il governo approfitti della tensione che si è creata per mettere a tema i veri nodi del lavoro che cambia.