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Da Maastricht al Fiscal Compact, storia di un’Europa senz’anima

E’ nota la mia posizione fortemente critica nei confronti dell’aggregazione monetaria europea e non desidero assumere né le vesti di avvocato difensore né quelle di avvocato del diavolo, ma rappresentare obiettivamente come il nostro Paese non fosse assolutamente preparato per adottare un nuovo modello economico in sostituzione di quello che, a torto o a ragione, lo aveva posto rapidamente dal dopoguerra ai vertici nelle classifiche delle potenze economiche mondiali. Fu infatti più una scelta politica che una ragionata opportunità economica anche se ciò che fu deciso 24 anni fa nel piccolo paese olandese, che trasformò la Comunità Economica Europea in Unione Europea spianando così la strada alla moneta unica, è profondamente diverso da quello che attualmente si persegue. Se la nostra classe dirigente avesse comunque dimostrato minore accondiscendenza e sottovalutazione sugli effetti che le regole in esso poste a fondamento avrebbero causato nella nostra economia, molto probabilmente non ci ritroveremo nelle attuali condizioni di totale decadenza economica e con limitatissimi margini per poter sperare in una inversione di tendenza.

D’altronde non a caso, nel periodo intercorrente fra la caduta del Muro di Berlino e la circolazione materiale dell’euro, il potere dell’esecutivo in Francia è stato ad appannaggio di due Presidenti, Mitterrand e Chirac, in Germania di due Cancellieri, Kohl e Schröder e in Italia da ben 17 Presidenti del Consiglio di tutti i colori e di tutte le coalizioni possibili! Ciò non ha mai consentito al nostro Paese di avere un potere contrattuale commisurato al suo status di seconda potenza manifatturiera europea e a mio modestissimo avviso, concordando pienamente sulla vecchia tesi di Paolo Savona, se avessimo seguito l’esempio inglese e danese nel pretendere e ottenere l’inserimento della clausola dell’opting out sin dalle prime battute, avremmo visto riconoscere ciò che invece ci è stato sempre negato. Sarebbe bastato capire realmente che senza la partecipazione del nostro Paese non si sarebbe potuta realizzare l’unione monetaria, e avremmo ottenuto condizioni più attinenti alla nostra economia che non a quella degli altri.

Molti comunque sono stati gli errori compiuti, ma una considerazione particolare merita la sottovalutazione che sia i “tecnici” che i “politici” attribuirono al parametro del 60% fra il debito e il PIL, (nel 1992 era del 105,49%), riuscendo alla fine nel convincere i partners europei, per il rotto della cuffia, più dell’importanza della tendenza che del valore assoluto. In realtà il nostro Paese aveva visto quasi raddoppiare questo parametro dal 1981 (rapporto al 58,46%), anno in cui avvenne il “divorzio” fra il Tesoro e la Banca d’Italia, per effetto non tanto dell’espansione della spesa, ma bensì per aver lasciato ai mercati la determinazione dei tassi e per aver introdotto il nuovo meccanismo di asta competitiva che permetteva alla quota del marginale di fissare il tasso sul totale dei titoli offerti. Scelta che, se da una parte aveva contratto l’inflazione riportando i tassi reali positivi, dall’altra innalzò sensibilmente i tassi d’interesse facendo esplodere di conseguenza l’entità del debito pubblico. L’adesione pertanto al parametro del 60%, rapporto che in quel periodo era rappresentativo dei debiti francese e tedesco, non costituì una scelta opportuna, condannando il nostro Paese ad avanzi primari corposi e continuativi non avendo più autonomi e sovrani strumenti per la sua gestione.

Non dovevamo pertanto dimostrare tanto all’Europa di essere bravi nel rispettare i parametri di convergenza, ma di capire fino in fondo cosa saremmo andati incontro modificando così radicalmente il nostro modello economico e pretendere di conseguenza diverse condizioni d’adesione.

L’altra sottovalutazione, che oggi paghiamo pesantemente, è non aver preventivato in anticipo gli effetti che i nuovi equilibri di geopolitica economica avrebbero innescato, dando il via libera ad una globalizzazione senza regole, costringendo il nostro Paese a confrontarsi con nuove ed emergenti realtà economiche senza tuttavia avere gli strumenti autonomi per poterle contrastare in modo ottimale. In quest’ottica s’inserisce, ad esempio, l’adesione della Cina al WTO, dove l’adozione di una moneta strutturata come l’euro ha notevolmente amplificato i nostri svantaggi di competitività, mentre una propria e sovrana avrebbe attenuato sensibilmente gli squilibri creati dalle inevitabili asimmetrie, fungendo da vero e proprio “dazio” occulto sull’esempio di molti paesi extra europei e di qualcuno europeo “in deroga” (artt.139 e 140 TFUE), cioè non eurodotato.

Maastricht nasce comunque per l’esigenza di adottare i presupposti di un “one market, one money”, indispensabile condizione per l’introduzione di una moneta condivisa, prevedendo essenzialmente convergenze macroeconomiche verso obiettivi comuni, ma che tuttavia potessero essere perseguite lasciando margini di autonomia nelle scelte di politica economica al fine di salvaguardare le diverse esigenze strutturali. Questo essenzialmente prevedeva Maastricht: fissava degli obiettivi di convergenza lasciando ai paesi aderenti il modo e i mezzi con cui raggiungerli. Il vincolo esterno pertanto avrebbe rappresentato, nella sua iniziale concezione e interpretazione, più uno stimolo nei confronti delle classi politiche nazionali per poter compiere quello che in modo autonomo difficilmente avrebbero realizzato e non un imperativo che si surrogasse completamente e che obbligasse i vari governi ad uniformarsi a regole e imposizioni omnibus, decise da organismi esterni non eletti e che non tenessero minimamente conto delle esigenze peculiari di economie non ancora integrate, profondamente distanti e diverse e in competizione fra di loro.

Di conseguenza possiamo affermare che l’impianto sottoscritto a Maastricht prevedeva una convergenza che avrebbe portato alla condivisione di una moneta diversa da quella che poi è stata in realtà realizzata. Questa evoluzione, ma sarebbe più opportuno definirlo una vero e proprio stravolgimento, è avvenuta successivamente in modo del tutto subdolo, senza cioè che ci sia stata la consapevolezza, il consenso e l’approvazione né dei Parlamenti nazionali né tantomeno dei cittadini. Sono stati attivati quei famosi meccanismi automatici, voluti da una oligarchia autoreferenziale che man mano conquistava il potere nei palazzi di Bruxelles, riuscendo a sottrarre alla gestione delle politiche dei Paesi membri, e pertanto al consenso democratico dei cittadini, qualsiasi spazio di autonomia nella determinazione delle politiche economiche per il raggiungimento degli obiettivi di crescita.

Prendendo a supporto le formidabili intuizioni del prof. Giuseppe Guarino, il principale responsabile di questo stravolgimento da porre sul banco degli imputati, è stata la disciplina introdotta dal Regolamento 1466/97 approvato il 7.7.1997 ed entrato in vigore il 1.1.1999 in occasione dell’introduzione dei cambi irrevocabili, ma totalmente opposta rispetto a quella contemplata dal TUE e nello spirito iniziale degli stessi firmatari di Maastricht. Un vero e proprio colpo di mano compiuto sotto gli occhi di centinaia di milioni di cittadini europei ignari e in buona fede e nell’indifferenza più o meno inconsapevole dei rispettivi Governi. La mutazione, tra quanto previsto dal TUE e dal Regolamento 1466/97 si evince in quanto il TUE fissa un obiettivo, uno sviluppo conforme al disposto dell’art.2, il cui conseguimento delle politiche economiche è affidato ad ognuno degli Stati membri, i quali avrebbero tenuto conto della specificità delle reali condizioni dell’economia del proprio Paese. Le rispettive politiche economiche avrebbero potuto utilizzare all’occorrenza, quale strumento per realizzare l’obiettivo, l’indebitamento nei limiti consentiti dall’art. 104 c), da interpretare ed applicare in conformità ai criteri fissati nei commi 2 e 3 del punto 2.

Il Regolamento in oggetto, che non ha certo forza di Trattato internazionale, abroga invece tutto questo, cancellando le politiche economiche degli Stati e di conseguenza qualsiasi loro apporto. Il ruolo assegnato dal TUE [art. 102 A, 103 e 104 c)] all’obiettivo dello sviluppo, in merito all’attività politica che gli Stati avrebbero conseguito in conformità a quanto prescritto negli artt.2 e successivi del Trattato, è pertanto completamente cancellato. Questo è il punto: secondo quanto previsto dal TUE, se vi è contrasto, è la gestione dell’euro a doversi adeguare alla realtà economica, mentre secondo quanto previsto dal Regolamento in oggetto, invece è la realtà economica a doversi adeguare all’euro e ai suoi rigidi dogmi. In questo modo il Regolamento 1466/97 ha pertanto cancellato i poteri ed i mezzi con cui gli Stati avrebbero potuto e dovuto avvalersi per produrre sviluppo.

Ciò ha determinato una profonda conflittualità fra quanto approvato dai rispettivi Parlamenti dei Paesi membri che hanno ratificato, dopo dibattiti parlamentari condivisi, il Trattato di Maastricht e quanto invece previsto dal Regolamento 1466/97, così forte e evidente, da stravolgere completamente l’iniziale natura stessa della moneta unica. Da una parte l’originario Trattato Istitutivo della UE, agli articoli ricordati, che lasciava spazi di autonomia nelle scelte di politica economica, dall’altra successivamente il Regolamento avocava questa prerogativa a se, consegnando nelle mani e volontà della Commissione e degli organi tecnici ogni potere decisionale.

In quest’ottica sono stati successivamente attivati ulteriori meccanismi automatici, come il FESF, il MES, l’Unione Bancaria e lo stesso Patto di Stabilità e Crescita, il c.d. Fiscal Compact, introdotto in evoluzione ai parametri fissati a Maastricht per garantire supporti sempre più tecnici senza che la mediazione politica potesse intervenire a sue correzioni. Ma se analizziamo l’impianto del Fiscal Compact ci accorgiamo che è totalmente illegittimo, nonostante l’approvazione di 25 degli allora 27 Stati membri, essendo in palese contrasto con i precedenti Trattati. Infatti come dispone lo stesso Trattato sulla Stabilità all’art.2, “Le parti contraenti applicano e interpretano il presente Trattato conformemente ai Trattati su cui si fonda l’Unione Europea”, il cui concetto è inequivocabilmente ribadito nel comma successivo: “Il presente Trattato si applica nella misura in cui è compatibile con i Trattati su si fonda l’Unione europea e con il diritto dell’Unione europea”. Pertanto il seguente art.3, n.1, lett.a) che prevede che “la posizione di bilancio della Pubblica Amministrazione di una parte contraente è in pareggio o in avanzo” è da ritenersi non conforme e non legittimo, in quanto il Trattato della UE firmato a Maastricht (TUE) all’art.104 c) prot.5, ribadito anche nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea di Lisbona (TFUE) all’art.126 (ex 104), fissano invece al 3% il limite dell’indebitamento annuale. E pertanto, essendo la matematica non un’opinione, il 3% è ben diverso dallo zero!

E’ stato quindi palesemente violato il Trattato istitutivo della UE unitamente al TFUE che ne ribadisce, al citato art.126, i limiti dell’indebitamento. E’ sconcertante che nessun giurista, dei tanti a disposizione di Bruxelles, si sia accorto prima delle ineccepibili interpretazioni giuridiche del nostro attento prof. Giuseppe Guarino che ha denunciato a gran voce anche questo palese contrasto. In questo modo si è preteso d’imporre l’inserimento nei dettami Costituzionali dei paesi dell’Unione del principio del vincolo del pareggio di bilancio (noi per ora i primi e gli unici, modificando frettolosamente e maldestramente l’art.81), per mezzo di un Trattato illegittimo e fortemente stridente con altri articoli e fondamenti delle varie Carte Costituzionali.

Ma dietro l’angolo c’è un’ulteriore evoluzione del Trattato sulla Stabilità al vaglio di Bruxelles. La Commissione Europea, rendendosi conto della difficoltà che l’insostenibilità dell’aggregazione monetaria sta producendo in aree economiche sempre più vaste, ha commissionato uno studio a 11 esperti internazionali guidato dall’ex governatrice della banca centrale austriaca, Sig.ra Gertrude Trumpel-Gugerell, al fine di “blindare” l’applicazione dell’art.4 del Fiscal Compact, cioè quello che impone la riduzione, nell’arco temporale di vent’anni, dell’eccedenza del rapporto debito pubblico/PIL rispetto al dettame del 60%. Lo studio, consegnato a fine marzo 2014 all’ormai ex presidente della Commissione Barroso che l’aveva commissionato su indicazione dello stesso Parlamento Europeo, prevede la creazione di un Fondo di Redenzione (ERF) dove far confluire i titoli pubblici dei paesi firmatari il Patto di Stabilità che superano la percentuale di debito prevista da Maastricht. Tale fondo di redenzione a sua volta emetterebbe degli eurobill, ovvero degli eurobond solidali, a fronte di garanzie collaterali rappresentate dall’asservimento di asset patrimoniali, partecipazioni, riserve valutarie e auree e parte della fiscalità, commisurate all’entità dell’apporto di titoli.

In poche parole si vuole ulteriormente privare i governi di spazi decisionali autonomi per il rispetto della diminuzione pianificata dell’eccedenza del proprio debito, nella consapevolezza che ben difficilmente le disposizioni previste dal F.C. potranno essere rispettate spontaneamente. Inoltre il meccanismo dell’ERF determinerebbe la conversione automatica, per quelle porzioni di debito pubblico conferite (per l’Italia di tratterebbe di non meno del 77% dell’intero debito), sotto la giurisdizione internazionale e non più nazionale, obbligando irreversibilmente i paesi partecipanti alla corresponsione degli interessi e del rimborso del capitale in euro. Particolare molto importante da non sottovalutare, poiché in caso di uscita unilaterale dall’euro o di rimodulazione delle condizioni d’emissione da parte di un paese membro, quest’ultimo sarebbe in ogni caso costretto, vita natural durante, al rimborso in euro divenuta a tutti gli effetti valuta estera, senza poter più applicare l’universale lex monetae (nel nostro c.c. artt.1277 e 1278). Per paesi come l’Italia, si attiverebbe pertanto una procedura assimilabile a quelle previste dal diritto fallimentare, con la penalizzante variabile però, di garantire più i diritti dei creditori che dei debitori provocando, per la porzione del 60% del debito rimasta nella “gestione” domestica, innalzamenti di tassi che annullerebbero i modesti vantaggi derivanti dall’emissione condivisa.

E’ anche altresì incomprensibile come la classe politica italiana, unitamente a quelle di altri molti paesi attualmente in difficoltà verso il rispetto dei dettami contemplati dal Fiscal Compact, non utilizzino le argomentazioni di Guarino per procedere a un suo stralcio o almeno a una sua moratoria. Nell’ultimo Consiglio Ecofin, svoltosi a Milano a settembre di quest’anno è stato invece ribadito, per voce del neo Commissario agli affari economici e monetari, il finlandese Jyki Katainen, il totale rispetto delle regole ad iniziare da quelle contemplate dal F.C.

Anche l’applicazione ferrea del limite del 3% del famoso rapporto fra deficit e PIL, pena sanzioni e dimostratasi formidabile arma coercitiva di ricatto solo confronti di alcuni Governi europei, è un arbitrio non supportato dai Trattati stessi. Sempre nell’art.104 del TUE, ora art.126 del TFUE, stabilisce che il 3% può essere legittimamente superato se discende da fatto eccezionale e momentaneo, quindi non imputabile allo Stato, ma dovuto ad un obbligo al quale lo Stato non poteva sottrarsi. Quale circostanza più eccezionale, valida per tutti gli Stati membri, giustificata dal perseguimento forzato di un modello economico errato e palesemente responsabile della depressione deflattiva a cui siamo stati condannati in quanto la governance economica europea, ormai saldamente guidata dalla c.d. Troika, si ostina nel perseguire la stabilità dei prezzi e il rigore dei conti come unici presupposti per la crescita?

Analizzando l’andamento degli indici comparati della produzione industriale Italia-Germania nel periodo pre e post introduzione dell’euro, possiamo verificare che mentre il nostro Paese registrava costantemente fino agli anni ’90 percentuali comparate positive, subito dopo l’introduzione dei cambi fissi irrevocabili avvenuta l’1.1.1999 registrava un tracollo continuo fino a raggiungere attualmente ad un meno 43% nei confronti di quella tedesca. La spiegazione più logica è che avendo adottato un modello economico perfettamente tarato secondo le esigenze e i principi propri dell’economia tedesca, per quest’ultimi l’euro risulta una valuta notevolmente sottovalutata rispetto ai propri fondamentali macroeconomici, mentre per l’Italia esattamente l’opposto, cioè molto sopravvalutata, a dimostrazione che tale modello non è esportabile e tantomeno replicabile in altre economie.

Da più parti si elevano richieste sempre più pressanti di cessioni unilaterale di sovranità al fine di consegnare ad un’unica regia europea le sorti e i destini dei paesi membri e per sollecitarla si propone di barattare la concessione di non ben specificata flessibilità sui conti pubblici in cambio di riforme. Ma sappiamo benissimo che le riforme hanno un prezzo elevato e in tempo di recessione aggraverebbero ulteriormente la già precaria situazione economica contraendo ulteriormente la capacità di spesa interna. La riforma cruciale richiesta dall’Europa è quella del lavoro al fine di recuperare quella competitività mortificata dal cambio fisso, a cui però l’attuale governo italiano risponde in modo contraddittorio, proponendo da una parte la diminuzione del cuneo fiscale, impraticabile attualmente fiscalmente per far fronte agli impegni previsti dai vincoli di bilancio, e dall’altro il perseguimento del modello del lavoro tedesco, che con la riforma Hartz introdusse all’inizio degli anni 2000 i minijob per circa sei milioni di cittadini su livelli retributivi intorno ai 450 euro mensili. Le parti sociali e i cittadini italiani sono pienamente consapevoli che la competitività del nostro Paese non passa più da aggiustamenti di rapporti di cambio, in poche parole dalla svalutazione, ma appartenendo ad un’area valutaria comune, alla svalutazione del costo del lavoro, cioè alla diminuzione degli stipendi?

A conclusione, siamo ancora certi che i vantaggi siano ancora superiori agli svantaggi in questa aggregazione monetaria che sta polarizzando aree sempre più ricche e aree sempre più povere? Il mercato unico posto a presupposto di una moneta condivisa non è stato mai realizzato e ben lontani appaiono i tempi di una sua realizzazione. La BCE ha esaurito i limitati poteri che la differenziano da tutte le altre Banche Centrali, facendo emergere che la sua reale funzione è quella di guardiana-garante della stabilità dei prezzi e che qualsiasi stimolo monetario adottato non può compensare le imperfezioni croniche dell’euro. Per perseguire la sostenibilità della moneta unica le istituzioni europee stanno privando di fatto i cittadini dei più elementari principii di democrazia su cui si basano tutti gli Stati del Vecchio Continente, avendo di fatto estraniato sempre più i governi e i parlamenti nazionali di qualsiasi potere decisionale. Ci sono in ballo principii imprescindibili e non negoziabili e qualsiasi modifica in tal senso deve essere preventivamente vagliata, condivisa e autorizzata dal suffragio universale. Queste sono le uniche regole per salvaguardare la democrazia conquistata dopo millenni e millenni!

Mi auguro che la classe politica italiana, dimostratasi sempre distratta e accondiscendente verso i dettami europei, dimostri almeno di essere consapevole e responsabile predisponendo un serio e dettagliato Piano B per una uscita ordinata e non scomposta, così come auspicato da Savona in tempi non sospetti, per evitare che il Paese paghi un prezzo ancora più elevato nel caso eventi esterni determinino improvvisamente l’implosione dell’area euro. E’ necessario salvare almeno il concetto di pace in Europa, mentre da troppo tempo invece la moneta comune rappresenta il principale elemento di contrasto per la realizzazione dei veri ideali dei Padri Fondatori. Maastricht ormai è lontana nello spirito e nelle finalità di questa Europa!


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