La discussione sulla riforma del Lavoro sembra essersi fermata solo sulla questione dell’Art.18, il che fa pensare ad una volontà di creare fratture e infuocare gli animi, tralasciando così la discussione vera sui contenuti della proposta del Governo in tema Lavoro.
Ho intervistato Stefano Liebman, professore ordinario di diritto del lavoro all’Università Bocconi e direttore della scuola di Giurisprudenza chiedendo di aiutarci a far luce sulla situazione attuale nel mercato del lavoro italiano e sulle contraddizioni emerse in questi giorni di “acceso dibattito”.
Prof. Liebman, le riforme del mercato del lavoro in Italia hanno prodotto sempre grande dibattito, spesso violento nei toni e anche nelle azioni. Come mai secondo lei quando si tenta di metter mano a questo tema scoppiano resistenze e accuse reciproche?
La ragione della passionalità del dibattito è dovuta sicuramente al fatto che la regolazione del mercato del lavoro ha a che fare con “la carne e il sangue” dei lavoratori. A ciò si aggiunge la difficoltà di conciliare la drammaticità dei problemi con le tecnicalità legislative e con il dirompente valore ideologico che ha finito col caricare determinate norme – l’art. 18 prima di tutto – di un valore simbolico che va ben oltre il loro impatto concreto sulla realtà.
Da ogni parte sentiamo parlare della necessità di maggiore flessibilità nel mercato del lavoro italiano, perché ce lo chiede l’Europa, secondo la retorica recente. Eppure abbiamo avuto numerose riforme che hanno “flessibilizzato” il mdl, a partire dal 1996 con Tiziano Treu, la riforma Biagi nel 2003, la riforma Fornero pochi anni fa ed oggi iniziamo la discussione con il DL Poletti e il Jobsact. L’Italia ha davvero bisogno di più flessibilità?
L’OCSE ha finalmente corretto gli errori che avevano in passato condotto ad una valutazione di estrema rigidità del mercato del lavoro italiano ed il nuovo Outlook (2014) dà finalmente atto dell’ampia flessibilità del nostro mercato del lavoro, che ci vede decisamente al di sotto della Germania in termini di protezione del lavoro, non lontano dai quei mitici paesi virtuosi (Danimarca e paesi scandivi in genere), dei quali, allo stato ed in attesa delle future modifiche, non abbiamo però il sistema di protezione del reddito in caso di disoccupazione involontaria e di assistenza pubblica nella ricerca di una nuova occupazione.
Il Premier Matteo Renzi dice che la Germania è il modello a cui guardare. Secondo lei, non è anacronistico guardare a riforme del 2003, quelle di Schroeder, oltretutto senza prevedere un sistema di garanzie e sostegni che invece in Germania esiste? Per non parlare del problema dei workingpoor…
La mia risposta a questa domanda è implicita in quella data alla domanda precedente: prima bisogna predisporre un adeguato sistema di protezione del lavoratore nel mercato, poi si potrà affrontare senza drammatizzazioni la questione della flessibilità in uscita, con o senza i vincoli posti dall’art. 18.
Il Jobsact, così come è stato presentato dal Governo è secondo lei un progetto che produrrà concreti effetti positivi sull’occupazione? E se sì, avremmo anche un aumento della qualità del lavoro, o come alcuni sostengono (molti) andremo verso un ulteriore peggioramento della condizione di precarietà e incertezza?
Per poter rispondere bisognerebbe avere più chiarezza sulla sostanza dei provvedimenti in fieri: costi e finanziamenti di una efficiente riforma del sistema di welfare, riforma degli uffici di collocamento e organizzazione di un sistema effettivo e serio di formazione professionale, effettiva tempistica nello svolgimento del contratto a tutele crescenti, ecc. Fino adesso è un libro dei sogni che può essere riempito di qualunque contenuto: evolutivo, ma anche potenzialmente involutivo.
Quali sono, secondo lei, i principali aspetti critici di questa proposta? Cosa invece sembra andare nella direzione giusta?
Il principale elemento di criticità sta nella vaghezza e genericità della delega; ciò che fa ben sperare è la tensione al superamento del dualismo fra lavoratori standard, garantiti da un sistema di protezione, e lavoratori atipici privi di tutela.
Un’ultima domanda: secondo lei non sarebbe opportuno parlare, oltre che della flessibilità e delle esigenze delle imprese, anche della necessità che imprenditori, piccoli o grandi, rispettino le regole? Non si dovrebbe parlare anche della lotta per la legalità contro l’evasione ed elusione fiscale? O i temi non sono legati?
I temi sono legati eccome: non si può sottovalutare il crescente divario di mezzi e possibilità fra milioni di lavoratori impoveriti dalla crisi ed un ceto imprenditoriale che, proprio negli anni di maggiore difficoltà, ha visto crescere in modo esponenziale il proprio reddito.