Nell’economia italiana il modo di produrre e di lavorare che per convenzione si chiama fordismo non è certo scomparso. Anzi, in larga parte dei servizi è vivo e vegeto. La stessa economia sommersa, in fondo, non ne è che la forma più cruda (e talvolta violenta). In questa realtà molteplice e mutevole del lavoro siamo, e con essa dobbiamo fare i conti.
Tuttavia, il secolo alle nostre spalle è iniziato dicendo ai lavoratori che non erano pagati per pensare, e si è chiuso riconoscendo che il lavoro “intelligente”, quello che sa risolvere i problemi, è la vera ricchezza delle nazioni nell’era della globalizzazione.
Questo dovrebbe significare qualcosa per i sindacati e per le forze politiche riformiste. Dovrebbe cioè significare che il tema della valorizzazione del capitale umano va preso sul serio, che va considerato una componente costitutiva di un modello di sviluppo capace -tendenzialmente – di creare piena e buona occupazione.
Questa prospettiva è ostacolata solo dal Fiscal compact e, più in generale, dai vincoli europei? Si tratta di un comodo alibi, che però ha il difetto di essere fasullo. Perché tale prospettiva è ostacolata, prima ancora che da un mercato del lavoro rigido (un tabù duro a morire), da un sistema di relazioni industriali che penalizza le esigenze di flessibilità delle imprese nonché le esigenze salariali e di crescita professionale dei lavoratori.
Non so se, alla fine, il redde rationem tra Matteo Renzi e la minoranza del Pd si consumerà sulla disciplina dei licenziamenti individuali. La sensazione è che i guelfi e ghibellini di quel partito abbiano voglia di menare le mani, ma fino a un certo punto. Del resto, litigare brandendo la pagliuzza dell’articolo 18 invece che la trave del centralismo contrattuale è anche un modo per non farsi poi troppo male.