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Il ventennio antiberlusconiano

Un contributo documentato per sfatare la facilità con la quale in Italia si creano (e si perpetuano) i miti politici lo ha ultimamente fornito l’ottimo Fabrizio de Feo che, sul Giornale (29 settembre), dimostra come sia deviante parlare di «ventennio berlusconiano» dal 1994 al 2014. Infatti negli ultimi quattro lustri è stata alla guida del governo più tempo la sinistra che il centrodestra: Romano Prodi, Massimo D’Alema, Giuliano Amato, Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi, nonché Lamberto Dini (imposto da Scalfaro a Palazzo Chigi dopo avervi subdolamente defenestrato Berlusconi), sono stati padroni delle stanze del potere esecutivo già 3.366 giorni (calcolati in fine settembre), rispetto ai 3.340 giorni nei quali ha governato il Cavaliere, compresi i mesi della diaspora finiana e delle trame grottesche e arcane che prepararono, nell’estate-autunno 2011, l’avvento del podestà straniero Mario Monti.

Giustamente de Feo fa notare che il termine «Ventennio» viene usato prevalentemente dal variabile fronte antiberlusconiano al fine di accostarlo al regime mussoliniano, che continua ad essere ancora giudicato negativo dalla maggioranza degli italiani. Proprio questo tentativo, ora rivoltatosi contro i «rossi», induce piuttosto a ritenere che i venti ultimi anni siano stati dominati non dal berlusconismo, bensì da un antiberlusconismo aprioristico, coniato nelle stanze del Quirinale al tempo del virtuosissimo Oscar Luigi Scalfaro: l’uomo che per primo allontanò il Cavaliere da Palazzo Chigi con metodi complottistici che hanno dato alla storia delle presidenze della repubblica momenti di disonorabilità vergognosa.

Ricordiamone i principali passaggi: la pressione sulla Lega di Bossi, già in rotta con Gianfranco Miglio (che comunque Scalfaro vedeva come il fumo negli occhi), perché spezzasse la coalizione che aveva vinto le elezioni del marzo 1994; l’ok dato al Corriere della Sera per pubblicare la notizia dell’avviso di garanzia a Berlusconi recapitato all’interessato mentre presiedeva a Napoli un convegno dell’Onu sulla criminalità organizzata; il doveroso (e invece aggirato) scioglimento delle camere modificate nella loro struttura proprio a causa delle oscure e palesi manovre scalfariane; il siluro lanciato contro Tonino Maccanico (come soluzione di garanzia concordata in via straordinaria fra i due poli) e la consegna di Palazzo Chigi a Lamberto Dini in quanto vertice della Banca d’Italia pur essendo in politica un parvenu, un quidam marginale.

Già tali atti, stravolgenti la volontà della maggioranza degli elettori vecchi e giovani del marzo 1994, dicono come il «Ventennio» sin dall’inizio (a soli otto mesi dal voto) venne a caratterizzarsi come antiberlusconiano e gettato in pasto alla sconsiderazione continua delle indicazioni elettorali: un effetto che, da solo, indica un rovesciamento delle regole fondanti della democrazia e un uso e abuso di preferenze personali del capo dello Stato in chiaro contrasto coi voti popolari. Tale questione oltre tutto si è riproposta nella XVI legislatura, con l’invenzione di Mario Monti quale superesperto di economia, un sovravvalutato insediato a Palazzo Chigi come un principe feudale per volontà sovrana. Da quel momento, al vertice del potere esecutivo non c’è più stato un politico specificatamente prescelto dagli elettori, come disposto dalle leggi elettorali vigenti.

Neppure voglio soffermarmi sulla defenestrazione di Berlusconi da senatore per volontà di una maggioranza corsara e con voto palese (e non segreto, come da regolamento e da prassi consolidata), una macchia indelebile nella storia di Palazzo Madama; più nera di quella che si sviluppò, nella stessa aula, a fine marzo 1953, con l’aggressione al presidente Meuccio Ruini e ad altri senatori, lo scempio dell’urna delle votazioni e l’inevitabile decisione di scioglimento anticipato del senato ad iniziativa di un capo dello Stato del calibro di Luigi Einaudi, un monumento della democrazia repubblicana. Di esempi se ne possono addurre a josa. Ma il giudizio complessivo non muterebbe.

La nostra è una democrazia malata nella quale le responsabilità ricadono principalmente a sinistra, divenuta un agglomerato di corporazioni senza visione unitaria. Una coalizione di protestatari e di conservatori di privilegi, la sinistra, unita o multipla, non va certo accolta come fosse il Verbo, ma va sollecitata ad abbandonare qualsiasi mitologia; e, finalmente, a mettersi alla stanga, assieme ad un centro moderato, per decretare quelle riforme strutturali che potrebbero fare uscire l’Italia dalla precarietà democratica e da una crisi economica smisurata.


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