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Ciò che è mancato alla Leopolda Blu

Presentato da mesi con stordenti battute di tamburo e strepiti di trombette, la manifestazione milanese del 18 ottobre 2014 doveva essere la giornata-simbolo – una sorta di 2 giugno referendario – di una riscossa del centrodestra all’insegna di uno slogan accattivante quanto errato nel significato: Leopolda Blu, una imitazione, sul versante opposto, della rottamazione imposta da Matteo Renzi al postcomunismo, quasi che davvero un’ondata giovanilistica possa sostituire una classe generale (come Benedetto Croce aveva battezzato il complesso dei ceti dirigenti dell’Italia in cammino verso la modernizzazione del liberalismo).

Personalmente, tempo fa, espressi chiaramente, su Formiche.net, il mio dissenso dall’idea di una Leopolda Blu: intanto perché il centrodestra è uno schieramento ibrido, mentre sarebbe giunto il momento di distinguere nettamente fra centro e destra, senza per questo rinunciare ad alleanze parlamentari che possano concorrere alla affermazione di una alternanza democratica nel sistema politico nazionale. Per non parlare delle culture di riferimento di ciascuna area, che non possono disinvoltamente confondersi in cartelli elettorali incoerenti e persino bizzarri. Capisco la voglia matta di avanguardisti di varia matrice ideale di forzare le situazioni, rodere dal di dentro uno o più soggetti politici e cercare di impadronirsene in nome della freschezza vitale. Ma il giovane caccia il vecchio o con la violenza o con una proposta politica innovativa e alternativa a quella che non piace più. Invece, di proposte inedite, non se ne scorgono nella Leopolda Blu.

L’incontro milanese del 18 ottobre è stato prodigo di desideri di riscatto, avaro di proposte che non fossero di tipo organizzativo, come le primarie, di cui io sento parlare dal 1962. Da dopo il congresso di Napoli della Dc: dove Moro prospettò un centrosinistra organico, accettando però di condizionarlo allo strapotere delle orde dorotee di Antonio Segni, obbligando le correnti a presentare liste chiuse preconfezionate di candidati e suscitando l’indignazione di alcuni delegati di sinistra, che postulavano almeno il ricorso alle primarie per una selezione qualitativa e rappresentativa di una realtà di partito di base diversa da come appariva al vertice.

Nell’ultimo scorcio d’estate, la costellazione dei gruppi italiani di centrodestra, composta di massima da leaderini supponenti quanto impropositivi, ha ritenuto di potere convenire a conclave. Non per sondare chi potesse essere il suo coordinatore generale, una sorta di pontefice massimo sostenuto da larghi consensi; e neppure per definire una piattaforma di discussione che valga ad abbozzare un inedito profilo culturale e politico di corposa consistenza e di valenza unitaria. Si è partiti dal presupposto che l’evento in sé costituisse una base esclusiva di partenza di un generale riscatto di un imprecisato centro-destra sperimentale.

Nel conclavino milanese c’era molto entusiasmo, e tuttavia sono mancate analisi politiche realistiche, mentre è stata del tutto assente qualsiasi considerazione sul quadro politico internazionale; dal quale siamo condizionati non soltanto a livello europeo, ma sia da una crisi economica globale ancora incontrollabile; sia da un terrorismo islamista che va molto al di là delle decadute e violenti primavere arabe che stanno lasciando soltanto macerie su tutte le rive africane del Mediterraneo. Cioè in Paesi confinanti, via mare, con l’Italia.

Non è casuale peraltro la contestuale manifestazione leghista di piazza Duomo, che ha mostrato una non indifferente consistenza di popolo, anche se pericolosamente faragista, mercantile e localista: magari giustificabile, ma non condivisibile, e neppure presentabile come modello politico nazionale. L’incontro (di studio?) di Desenzano ha, a sua volta, mostrato la persistenza di un ceto politico e parlamentare che si giustifica proprio col medesimo desiderio di sostituire il berlusconismo, com’è negli auspici del ragazzi della Leopolda Blu; ma godendo in più di posizioni di potere – parlamentari e governative – figlie di quel tentativo di pacificazione nazionale, che dopo il delirante fallimento della gestione bersaniana del Pd, indusse Berlusconi – e non Alfano o Quagliariello, o Cesa o alcuni dei leopoldini blu – a proporre la rielezione di Napolitano al fine di una intesa politica straordinaria tra forze parlamentarmente equivalenti, di fatto rapidamente smontata dal giustizialismo cassazionista e da una maggioranza corsara insorta particolarmente in senato.

A Desenzano è stata riproposta la teoria di Quagliariello della quadriglia bipolare, culturalmente suggestiva, politicamente improponibile, dal momento che le aree di riferimento esistenti sulla scena nazionale non sono soltanto quattro (l’estrema sinistra; la socialdemocratica che Renzi s’affanna a ricercare ma è bloccata da un veteromarxismo irriducibile; un centro moderato collaborativo e insieme alternativo al renzismo; una destra estrema oltretutto plurale), ma almeno sei. Il grillismo non è un movimento soltanto mediatico; è disfattista e impropositivo con palesi spinte ribellistiche; presenta connotazioni che sono presenti anche fra i leopoldini blu che s’infervorano di marketing e di comunicazionismo 2.0. Soprattutto, dilaga un astensionismo che, pur disomogeneo, numericamente supera di gran lunga l’intero spettro della geografia politica nazionale.

Ma il 18 ottobre è nato a Roma un nuovo movimento politico di destra (dopo un divorzio politico dal Nuovo Centro Destra alfaniano), mentre Fratelli d’Italia di Meloni e La Russa supera, nei sondaggi impietosi, l’Udc, che pur beneficia nel suo emblema del valore dello scudocrociato di benemerita memoria. Mentre Gianfranco Fini s’appresta a resuscitare a Bari dopo aver perso quasi totalmente il suo antico cerchio magico che provocò la prima, seria scissione del Popolo della Libertà…

Ciò che comunque sconcerta, sia nel giovanilismo dei leopoldini blu, sia in un Ncd che perde pezzi ma pretende di condizionare Renzi per grazia ricevuta da Berlusconi, è la diffidenza che si nutre verso Forza Italia: malgrado essa resti il principale gruppo di riferimento elettorale del centro, surclassando tutti gli altri contestatori sommati assieme. Non solo. A Marino e a Civitanova Marche lo stesso Berlusconi (in videoconferenza per le note restrizioni giudiziarie) ha preso l’iniziativa di lanciare le primarie provinciali (spiazzando amici ed avversari), ma contemporaneamente ha svolto un’analisi economica e di politica internazionale che i leopoldini blu si sognano e i seguaci di Alfano (o di Quagliariello?) evitano per non farsi troppo male.

Dunque, persiste nel centro-destra (plurale) un frazionismo suicida; prevalgono supponenze di ceti politici diventati nomenclature come quelle che Renzi tenta di rottamare nel suo Pd; ma neppure accademici come Luca Ricolfi e Giovanni Orsina – tra i migliori sulla piazza italiana – riescono a spiegare come assicurare un bipolarismo forte con capacità reale di alternanza democratica, data l’assenza di quid in alcun leader e di strumenti elettorali non impositivi e invece idonei ad assicurarla.

Giovanni Di Capua


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