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Ecco le 4 variabili che remano contro Renzi e Padoan

Quattro variabili per quattro scenari: andamento del Pil, curva dei rendimenti del debito pubblico, avanzo primario ed inflazione sono gli elementi decisivi per l’equilibrio delle finanze pubbliche. Su di essi potrebbero impattare shock macro-fiscali determinati da turbolenze o crisi sui mercati finanziari, crisi energetiche, conflitti geopolitici, emergenze per epidemie, ma anche da cambiamenti di maggioranze politiche all’interno dell’Eurozona con il prevalere di partiti contrari alle politiche di austerità. Determinerebbero scenari ben diversi rispetto a quello moderatamente ottimistico prescelto dal governo Renzi per definire la manovra per il 2015.

Secondo il quadro macroeconomico tendenziale contenuto nell’Aggiornamento del Def per il 2014, il Pil del prossimo anno aumenterebbe dello 0,5%, con contributi positivi della domanda interna (0,4%) e della variazione scorte (+0,1%), mentre le esportazioni nette sarebbero negative (-0,1%). La disoccupazione rimarrebbe stazionaria, al 12,6%. Nonostante il volume rilevante della manovra, che vale 36 miliardi di euro, il disegno di legge di Stabilità punta ad una maggior crescita del Pil di appena un punto decimale (+0,6% anziché +0,5%), con il deflatore del Pil che rimarrebbe allo +0,6% (+1,6% nel 2016 e +1,8% nel 2017). Il tasso di disoccupazione, invece, calerebbe di un decimo di punto (12,5% anziché 12,6%). Il contributo alla maggiore crescita deriverebbe tutto dall’aumento della domanda interna (+0,7% anziché +0,4%) che compenserebbe non solo il calo delle esportazioni nette che viene confermato, ma anche l’invarianza delle scorte.

Al di là di ogni altra considerazione, la politica fiscale per il 2015 si pone l’obiettivo di aumentare il Pil di un decimo di punto, pari a 16 miliardi di euro, attraverso la domanda interna, attingendo al maggior disavanzo per 11 miliardi ed a maggiori tasse, sulle slot machine e sulle rendite finanziarie, per 4,6 miliardi. Se si escludono i 3,8 miliardi da incassare con la lotta all’evasione, cui fanno fronte ben 3,4 miliardi di fondi tenuti di riserva, tutto il resto è frutto di rimescolamenti interni alle precedenti partite di spesa. Inserire tra le entrate, come pure si è fatto, i 15 miliardi di risparmi derivanti dalla spending rewiew è fuorviante, visto che si confonde il concetto di copertura finanziaria di una nuova spesa con quello di una nuova entrata. Il sostegno complessivo alla domanda vale 20 miliardi, circa 1,5 punti di Pil: ci sono la conferma del Bonus 80 euro in busta paga (9,5 mld), le maggiori detrazioni familiari (0,5 mld) e le assunzioni di insegnanti precari (0,5 mld); sul versante delle imprese, l’eliminazione della componente lavoro dall’Irap (5 mld), la decontribuzione dei nuovi contratti a tempo indeterminato (1,9 mld), gli sconti per le Partite Iva (0,8 mld), il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali (1,5 mld), ed il sostegno alla R&S (0,3 mld). Altri interventi di spesa per 10 miliardi di euro sono rappresentati dalla eliminazione delle nuove tasse (3 mld) e dal rifinanziamento di spese inderogabili (6,9 mld): partite economicamente ininfluenti e stanziamenti meramente ripetitivi di spese consolidate da anni.

Rispetto alla baseline macroeconomica, l’Aggiornamento al Def ha delineato altri tre scenari: uno decisamente ottimistico, definito di “alta crescita” (con un aumento ulteriore del Pil dello 0,5% per in ciascun anno ed una riduzione dello spread sul Bund di 50 punti base), uno di “bassa crescita (con un -0,5% del Pil rispetto allo scenario base ed un aumento dello spread sul Bund, che arriverebbe a 200 punti base a fine 2018), ed uno ancor più grave, definito di “deflazione” (in cui alla diminuzione del Pil ed all’aumento degli spread sul Bund dello scenario di “bassa crescita” si aggiunge un deflatore del Pil più basso dello 0,5% nel 2015, dell’1% nel 2016 e dello 0,75% nel 2017 rispetto allo scenario base).

L’ipotesi di deflazione è, ovviamente, la peggiore, soprattutto per quanto riguarda il rapporto debito/Pil: l’Italia, che parte dal 131,5% di fine 2014, arriverebbe al 139,6% già nel 2016, mentre nel 2017 toccherebbe il 140,4%. Anche nello scenario di bassa crescita, il rapporto salirebbe ancora, arrivando al 136,1% nel 2016. Solo nello scenario prescelto dal governo, invece, il picco del rapporto debito/Pil si raggiungerà nel 2015, con il 133,4%, per iniziare una progressiva discesa a partire dall’anno successivo. Ancora una volta, l’anno di svolta per la riduzione del debito è davanti a noi, e non già alle nostre spalle: è come la luce della ripresa in fondo al tunnel, che si allontana regolarmente un anno dopo l’altro. Anche l’obiettivo del 60% nel rapporto debito/Pil in vent’anni si è fatto progressivamente più oneroso da conseguire: nella valutazione della sostenibilità del debito, infatti, mentre il Def 2013 valutava lo sforzo nel breve termine pari al 4,1% del Pil, ora si è arrivati al 4,6%.

Siamo di fronte a tre snodi assai delicati. In primo luogo, se da una parte il governo utilizzata tutti i margini di flessibilità previsti dal Fiscal Compact relativamente al rapporto deficit/Pil, dall’altra l’obiettivo che persegue in termini di maggior ripresa economica e di riduzione della disoccupazione è assai modesto, per non dire impercettibile dal punto di vista statistico, appena un decimo di punto. La seconda questione riguarda la sensibilità agli shock macro-fiscali: visto che sono bastati appena due giorni di tensioni originate dalla stuazione greca per creare nuovamente allarme sullo spread, risulta evidente come si possa scivolare velocemente da uno scenario moderatamente ottimistico a quello di bassa crescita. Ci sono troppi focolai accesi, tutti più pericolosi per l’Europa che per gli Usa: le tensioni sul versante ucraino possono determinare una riduzione dei rifornimenti di gas dalla Russia; l’appesantirsi delle sanzioni economiche nei confronti di Mosca, per via dell’annessione della Crimea, indurre a ritorsioni pericolose, come l’inibizione del sorvolo del territorio russo per tutti i collegamenti dall’Europa verso Oriente; la situazione mediorientale, soprattutto se l’Isi dovesse radicarsi anche in Libia, Algeria e Nigeria, potrebbe rendere ulteriormente precari i rifornimenti energetici; l’epidemia di Ebola potrebbe propagarsi, imponendo forti restrizioni ai movimenti di persone e di merci per via della necessaria quarantena.

In ultimo, vanno considerate le tensioni politiche e sociali. Se i mercati hanno appena tirato un sospiro di sollievo per via della reiezione del referendum sulla autonomia della Scozia, ci sono forti fibrillazioni in Grecia per via del fallito tentativo del Governo Samaras di dimostrare che l’emergenza finanziaria è finita: voleva ottenere dalla Troika la possibilità di ripagare in 70 anni ed a tassi moderati il debito derivante dagli aiuti ottenuti dall’ESM e dal Fmi, per potersi presentare nuovamente sui mercati finanziari con un debito pubblico sostenibile e con l’uscita anticipata dal programma internazionale di assistenza, ma ha conseguito solo il risultato di mettere in allarme gli investitori, con la Borsa a picco e gli spread nuovamente all’aria. Nel frattempo, Siriza, il principale partito di opposizione guadagna consensi. In Italia, la situazione sembra assai più tranquilla, visto che il timore di elezioni anticipate attanaglia tutti parlamentari, di maggioranza e di opposizione: chi per un motivo, chi per un altro, temono di non essere rieletti. Anche sul fronte sindacale le difficoltà non mancano, dopo il cuneo piantato dal governo con il Job Act e le modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: la mobilitazione non sarà unitaria, e la protesta poco credibile, a tutela solo di chi ha un lavoro a tempo indeterminato. La delegittimazione di qualsiasi opposizione, politica e sociale, alimentata dal discredito e dagli scandali, ha lasciato senza voce la più gran parte dell’economia reale: la piazza non si sa più contro chi protestare. Sono stati tutti già rottamati.

Dopo anni di randellate fiscali, perché vivevamo al di sopra delle nostre possibilità, siamo giunti all’eccesso opposto, al punto che viene offerta una parte del TFR per ricominciare a spendere. Una formica invogliata a farsi cicala, mai visto prima. Troppe variabili da tenere sotto controllo, troppi scenari da valutare, ma il peggiore non è la deflazione: è la coscienza degli errori enormi che sono stati compiuti in questi anni, con l’austerità che ha fabbricato più debito e più disoccupati della crisi, e dell’incapacità dell’Europa di darsi una strategia comune per rimediarvi davvero. E’ questo lo scenario che fa davvero paura.


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