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Intese alla Juncker, doppio irlandese, panino olandese. Tutti i trucchetti fiscali sparsi per il mondo

Aziende globali dell’economia digitale: dove risiedono e dove devono pagare le tasse? Questo è il grande dilemma (per gli Stati sovrani) creato dalla Internet economy e il portentoso escamotage concesso a colossi che vanno da Apple ad Amazon (ma il settore hitech non è l’unico coinvolto) che riescono, con creative strutture corporate, ad aggirare il pagamento delle tasse nei Paesi in cui generano introiti.

La questione è diventata “imbarazzante” in questi giorni perché tra i Paesi europei che favoriscono gli escamotage fiscali c’è il Lussemburgo, dove molte aziende hanno potuto ottenere importanti agevolazioni in cambio dei loro investimenti negli scorsi anni – anni in cui alla guida del Paese come premier c’era il neo-eletto presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker. A mettere Junker sulle braci ardenti c’è l’intesa che il Lussemburgo avrebbe concordato con 340 multinazionali per garantire loro una fiscalità vantaggiosa in cambio dell’installazione di una sede entro i confini del granducato.

GOOGLE & CO.: 25% DI TASSE IN MENO IN 8 ANNI 

La questione però ha dimensioni più grandi e non coinvolge solo il Lussemburgo. Pochi mesi fa il Financial Times calcolava che grandi aziende hitech americane e alcuni colossi farmaceutici – AppleMicrosoftGooglePfizer, Cisco SystemsOracleQualcommJohnson & JohnsonMerckAmgenEmceBayEli Lilly e Medtronic – erano riusciti a ridurre il loro carico fiscale medio del 25% negli ultimi otto anni “parcheggiando” il loro contante all’estero. Lo hanno fatto così sistematicamente che il cash che questi gruppi conservano fuori dagli Stati Uniti (quasi 500 miliardi di dollari) è più del cash di tutte le altre aziende Usa messe insieme. Queste aziende godono di un livello di corporate tax che è in media di appena il 10% nel 2013, dice il sondaggio del Ft, e il carico fiscale a cui sono soggette è sceso di 7,7 punti tra il 2004-06 e tra il 2011-13; per contro, le tasse corporate nei Paesi Osce sono scese di 3,4 punti e ammontano in media al 25,15%.

Sono cifre che disegnano una “migrazione” dei profitti generati da alcune grandi compagnie americane verso Paesi con regimi fiscali molto favorevoli quali Irlanda, Singapore e Bermuda. La montagna di contante che queste aziende hanno fuori dagli Stati Uniti è destinata a crescere perché non solo il regime fiscale degli Usa non è altrettanto favorevole sugli utili aziendali, ma è molto pesante per chi fa tornare in patria soldi che prima teneva all’estero (con tassazione fino al 35%). Molti gruppi hanno addirittura chiesto al governo Usa una “tax holiday“, una sorta di moratoria, che permetta di riportare il cash in patria sotto un regime un po’ più favorevole – moratoria che però non è molto probabile, visto che la Us Joint committee of Taxation ha fatto presente al Congresso che tale misura costerebbe al governo a stelle e strisce 96 miliardi di dollari di introiti in dieci anni.

DAL DOPPIO IRLANDESE AL PANINO OLANDESE

In Europa ad essere nel mirino delle autorità è soprattutto l’Irlanda, visto che l’escamotage più usato dalle tech companies è il cosiddetto Double Irish, che sfrutta la possibilità concessa dalla legge irlandese di incanalare i pagamenti delle royalties per la proprietà intellettuale da una filiale registrata in Irlanda a un’altra che risiede per motivi fiscali in un Paese dove non si pagano tasse sugli utili. Il Double Irish permette alle aziende di trasferire legalmente ogni anno miliardi di euro di profitti in paradisi fiscali; è usato da aziende come Google, Facebook o VMware e da molte altre tech companies americane. VMware, per esempio, ha una sussidiaria registrata in Irlanda col nome di VMware Bermuda Ltd che l’anno scorso ha incassato 1,43 miliardi di euro di licensing fees dalla divisione irlandese che vende software e servizi VMware, ma senza pagare tasse sui profitti.

Il sistema del Double Irish è spesso appaiato a un’altra struttura molto sfruttata dalle multinazionali e che chiama in ballo un altro Paese ancora: il Dutch Sandwich, che usa un sistema di più società, di cui una con sede nei Paesi Bassi, per evitare alcune tasse. Double Irish in primis e a seguire tutti gli altri stratagemmi sono diventati il centro di una campagna per la revisione del sistema di corporate tax: l’Ocse ha detto che uno degli obiettivi delle sue raccomandazioni per le modifiche ai regimi fiscali è proprio quello di porre fine ai sistemi che permettono alle aziende di trasferire i profitti verso i paradisi fiscali.

APPLE E AMAZON NEL MIRINO

Il Doble Irish è stato attaccato di recente dall’Ue per gli accordi con cui l’Irlanda avrebbe permesso ad Apple di ottenere un regime fiscale molto favorevole (accordo negato tanto dall’Irlanda quanto da Apple). La Commissione europea ha pubblicato a settembre la lettera inviata a Dublino con cui ricostruisce le relative vicende degli accordi fiscali tra la Mela e il governo Irlandese tra il 1990 e il 2007 e parla di illeciti “aiuti di Stato”. Le autorità irlandesi avrebbero accettato di considerare come base imponibile della società Usa, in relazione alle filiali irlandesi, dei valori non allineati a quanto sarebbe avvenuto normalmente sul mercato, un beneficio che Apple avrebbe ottenuto mettendo sul piatto della “trattativa” pesi quali l’opportunità di creare occupazione.

Una vicenda simile ha visto coinvolta Amazon e ci riporta in Lussemburgo: la Commissione europea ha aperto un’indagine a tutto campo sul regime fiscale che il Lussemburgo applica al colosso americano delle vendite, che sottovaluterebbe il volume degli utili di Amazon e le concederebbe un vantaggio sleale sulla concorrenza. La Commissione ha spiegato che la delibera fiscale emanata nel 2003 dal Lussemburgo per la filale locale di Amazon, Amazon Eu Sarl, ha permesso all’azienda di pagare una royalty alla casa madre che ha ridotto la quota tassabile ad appena l’1% dell’utile prodotto in Europa. Ciò, indica l’Ue, potrebbe non essere in linea con le condizioni di mercato.

“E’ giusto che le filiali delle multinazionali paghino la loro parte di tasse e non beneficino di un trattamento preferenziale che equivarrebbe a sovvenzioni mascherate”, ha dichiarato il commissario Ue alla concorrenza Joaquin Almunia.

IRLANDA, UN PASSO AVANTI E UNO INDIETRO

L’assedio di Ocse e Ue agli escamotage fiscali è stato tale che a metà ottobre il ministro delle Finanze irlandese Michael Noonan aveva annunciato che dal 1° gennaio 2015 il Double Irish non sarebbe stato più utilizzabile per le società che si stabiliscono ex novo nel Paese. Le altre avrebbero avuto il tempo di rivedere la loro organizzazione fino al 2020.

Pochi giorni dopo, però, il governo irlandese ha fatto marcia indietro preannunciando per il 2015 un provvedimento, il Knowledge Development Box, che consentirà alle aziende tecnologiche, farmaceutiche e ad altre che traggono i loro ricavi da prodotti e servizi coperti da brevetto, di pagare meno tasse.

Si tratta di un tipo di provvedimento che esiste già in Gran Bretagna, dove è chiamato “patent box”, e in Olanda, dove è conosciuto con il nome di “innovation box” e che consente alle aziende di separare le entrate provenienti dalla proprietà intellettuale, per le quali è previsto un carico fiscale ridotto. In Olanda, per esempio, la quota da versare in base all’innovation box è soltanto il 5%. In Irlanda la corporate tax è già piuttosto bassa (12,5%); quella garantita ai prodotti coperti da brevetto sarà presumibilmente molto inferiore.

SCHAUBLE: SERVE UN SISTEMA FISCALE GLOBALE

“Il modo di funzionare dell’economia mondiale sta profondamente cambiando: come effetto della globalizzazione e della digitalizzazione, un numero crescente di processi economici ha assunto scala internazionale”, ha scritto nei giorni scorsi Wolfgang Schäuble, ministro tedesco delle Finanze. “Il progresso tecnologico nella digital economy fa sì che le aziende possano servire i mercati senza esservi fisicamente presenti e anche le fonti di reddito sono diventate mobili: c’è un crescente interesse verso asset intangibili e investimenti mobili che possono essere facilmente ‘ottimizzati’ da un punto di vista fiscale e trasferiti all’estero. Le normative fiscali non hanno tenuto il passo con queste evoluzioni, non sono più adatte all’integrazione internazionale, alle strutture delle aziende di oggi e alla realtà economica dei servizi digitali. Senza norme adeguate, gli Stati perdono entrate di cui avrebbero enorme bisogno per rimpinguare le loro casse”.

“La tensione che ne deriva tra sovranità fiscale degli Stati e le dimensioni senza confine delle attività economiche moderne può essere risolta solo tramite un dialogo internazionale e standard globali uniformi”, secondo Schäuble. “Nell’Unione europea, gli Stati si devono unire per proporre una soluzione congiunta. Nei giorni scorsi si è tenuto a Berlino il settimo meeting del Global Forum on trasparancy and exchange of information for tax purposes, che ha riunito i rappresentanti di 122 Paesi e giurisdizioni, Ue compresa, ed è stato firmato un accordo sullo scambio automatico di informazioni sui conti finanziari a fini fiscali: in futuro, virtualmente tutte le informazioni connesse con un conto bancario saranno riportate alle autorità fiscali del Paese di appartenenza del proprietario del conto. Abbiamo bisogno di standard internazionali uniformi per raggiungere una concorrenza fiscale internazionale equa e i progressi fatti con l’accordo di Berlino sullo scambio automatico delle informazioni per il fisco dimostra che, lavorando tutti insieme, raggiungere questo obiettivo è possibile”.

GLI ESCAMOTAGE CONVENGONO DAVVERO?

Di fronte a tante pressioni quanto dureranno gli escamotage fiscali? Sicuramente gli Stati sovrani, defraudati di miliardi di entrate, cominciano ad attrezzarsi per reagire. Il gruppo del G20 si prepara a varare norme più severe contro le scappatoie come il famigerato Double Irish. La Commissione europea, come abbiamo visto, esamina i casi di alcuni colossi come Apple. Negli Usa, la Us Joint committee of Taxation ha fatto notare che gli escamotage fiscali alla lunga potrebbero rivelarsi non così convenienti come sembrano: le aziende americane si stanno ritrovando oberate da costi extra legati proprio al fatto che conservano i soldi dei profitti fuori dagli Usa e in patria sono costrette a prendere il denaro in prestito perché non possono usare il contante che hanno all’estero.

Gli investitori poi si preoccupano che l’effetto positivo dei regimi fiscali molto favorevoli sugli utili aziendali non tenga nel lungo termine: Luca Paolini, chief strategist di Pictet Asset Management, ha messo in dubbio in una nota che un’azienda che migliora i suoi margini netti solo grazie al fatto che paga meno tasse sia un’azienda dal business in perfetta salute.

I regolatori americani, infine, spingono perché le compagnie con tanto contante all’estero siano più trasparenti e diano dettagli su quanto contante conservano fuori dagli Usa e come lo utilizzano: Google di recente ha dovuto illustrare alla Securities and Exchange Commission il suo programma con cui intende spendere “fino a 30 miliardi di dollari su acquisizioni estere”. La stessa Sec ha chiesto ad alcune aziende di spiegare perché gli utili prodotti all’estero sono “sproporzionati” rispetto al fatturato estero: le multinazionali del sondaggio del Ft hanno riferito che due terzi dei loro profitti sono prodotti fuori dagli Usa, contro solo la metà delle loro vendite.

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