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Sony Hack, ecco la strategia di Obama per colpire Pyongyang

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class e dell’autore, pubblichiamo l’articolo di Alberto Pasolini Zanelli uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi

Escalation continua in Corea: da un piccante scandaletto Wikileaks alle ipotesi di rappresaglie, a un intervento in prima persona del presidente degli Stati Uniti. Obama ha apparentemente esitato, o preferito aspettare, a salire sul ring, anche per non essere trascinato in una polemica che, in parte, potrebbe guastare l’atmosfera da luna di miele natalizia succeduta al «trattato di pace» con Cuba.

Ma non poteva aspettare altrimenti, né permettere che la polemica rimanesse a un livello francamente ineguale, fra una commediola satirica e un regime tristemente famoso per la imprevedibilità delle sue mosse e la brutalità dei suoi metodi. Un dittatore contro dei direttori di cinematografi. L’uomo della Casa Bianca doveva parlare in prima persona e lo ha fatto, anche per ristabilire un equilibrio e distribuendo critiche e moniti ai protagonisti. Gli Stati Uniti, ha detto, «risponderanno adeguatamente ai cyber attacchi del regime di Pyongyang contro la Sony, in forma non ancora scelta ma al momento e nel modo opportuno» per reagire contro una nazione dalle capacità nucleari. Dopodiché ha dato uno scappellotto anche alla Sony, accusandola di avere, in un primo momento, capitolato frettolosamente: «Avrebbero dovuto parlare prima con me e io gli avrei detto di non entrare in un gioco in cui siete sottoposti a questo genere di attacchi criminali».

Parole che rivelano come l’inchiesta sugli «incidenti» sia ormai conclusa e l’Fbi abbia già raccolto prove sufficienti per attribuire la responsabilità e l’organizzazione degli attacchi al governo nordcoreano. Nelle ultime ore anche la Cina, pur senza nominare l’alleata Pyongyang, ha condannato il terrorismo in forma telematica.

A questo punto, l’accenno a una «risposta adeguata» potrebbe preludere, da parte americana, a una vera e propria rappresaglia (in parte avvenuta, forse, con un blackout causato alla rete nordcoreana), di caratteristiche e misure molto differenti da quelle decise nelle precedenti «schermaglie elettroniche». Il presidente si è chiesto, in sostanza, non soltanto «che cosa accadrà se rispondiamo» bensì, soprattutto, «cosa potrebbe succedere se non reagissimo». Tuttavia Obama non ha mancato di richiamare in gioco gli aspetti curiosi, se non addirittura farseschi, di questa peculiarissima crisi e non ha mancato di ironizzare su un regime che si lascia trascinare a gesti illegali dal panico per quello che è sostanzialmente un film satirico. Di «ridotte dimensioni» e che è diventato famoso proprio per le reazioni di Kim Jong-un, evidentemente sproporzionate alla «provocazione» e che contengono il rischio, fra l’altro, di confondere le idee e di creare una tensione internazionale smisurata ai contenuti del film ma giustificabile proprio per i precedenti.

La Corea del Nord, oltre a essere probabilmente la dittatura più chiusa rimasta al mondo, in stile stalinista e macchiata anche di recente del sangue di una faida familiare con l’eliminazione fisica dello zio supposto rivale dinastico del nipote onnipotente, è stata inclusa poco più di dieci anni fa nella lista delle minacce nucleari, come membro (termine creato dal predecessore di Obama, George W. Bush) dell’«Asse del male» assieme all’Iran e all’Iraq. La Sony non ha dunque le dimensioni politiche per rimanere la sola controparte di questa crisi, anche perché è costretta dalla propria natura a lasciare una parte importante delle decisioni nelle mani dei direttori di sale cinematografiche; che, all’80%, hanno rifiutato, per motivi di sicurezza, di proiettare il film The Interview (L’intervista). Anche se in seguito la casa di produzione sembra aver innestato la retromarcia, spiegando che il film uscirà comunque il giorno di Natale, almeno in alcune sale.

Obama vuole riservarsi l’ultima parola, onde ristabilire le proporzioni e gli equilibri di quella che ha alcuni aspetti di vera e propria crisi internazionale e che non può essere gestita sulle battute di Angelina Jolie e sulle parodie dei comportamenti attribuiti a un dittatore prima di essere vittima di un complotto assassino. Obama ha parlato chiaro in un contesto non facilissimo, fra i rischi opposti di esagerare e di non prendere abbastanza sul serio il problema. Le decisioni degli Stati Uniti nei confronti di un paese ostile ma sovrano non possono essere devolute a un gigante dell’elettronica e dello spettacolo.

L’America non poteva non parlare, non potrà non reagire, ma non intende lasciare che questo incidente interferisca con le tensioni internazionali plurime e ben reali. Non ha potuto non accennare alle tensioni con la Russia, al Medio Oriente, alla tragedia del Pakistan. Ma non ha voluto nemmeno far «sparire» troppo in fretta dalla memoria lo storico successo che ha appena ottenuto riallacciando le relazioni fra Washington e L’Avana, mettendo fine a una guerra fredda che ha compiuto 54 anni e ha visto impegnati undici presidenti. Per Obama è stato uno dei momenti più felici della sua tormentata presenza alla Casa Bianca, anche se ha suscitato polemiche, addirittura preelettorali. Una vignetta lo presenta su una barchetta del tipo su cui, per mezzo secolo, i profughi cubani veleggiavano verso l’America. Anche Obama è salpato, però nella direzione opposta: per le vacanze a casa. Nelle Hawaii.


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