1. Al Qaeda è viva e ha ancora gli artigli affilati. La rivendicazione del suo ramo yemenita, al Qaeda nella Penisola arabica, sembra essere autentica, sebbene non sia ancora possibile escludere che il video sia stato realizzato ex post a fini propagandistici. L’eliminazione di Osama bin Laden e di tanti “numeri due” ha indebolito l’organizzazione ma non ne ha azzerato la capacità d’azione, che resta notevole anche sotto la guida dell’emiro Ayman al Zawahiri.
2. Tutto questo è stato possibile perché al Qaeda è passata negli ultimi anni attraverso un radicale processo di trasformazione. Un attentato come quello di Parigi non sarebbe mai stato possibile se un ruolo di assoluta centralità all’interno del gruppo non fosse stato assunto dai rami locali come al Qaeda nella Penisola arabica. Sono questi gruppi, spesso dimenticati dalle cronache quotidiane dei nostri media, a tenere in vita la leadership dell’organizzazione.
3. Con Parigi, al Qaeda nella Penisola arabica ha compiuto un enorme salto di qualità. La crescita del gruppo (considerato già anni fa dall’amministrazione Obama unadelle più pericolose formazione jihadisteal mondo) era stata oscurata di recente dalla spaventosa avanzata dello Stato islamico in Iraq e in Siria, ma non era sfuggita agli osservatori più attenti. Nasir al Wuhayshi, leader del gruppo, ha compiuto un percorso completamente diverso rispetto a quello del “califfo” Abu Bakr al Baghdadi, scegliendo il profilo basso e scalando posizioni di potere all’interno dell’organizzazione qaedista fino a esserne proclamato direttore generale. Un’ascesa che ha consentito ad al Qaeda nella Penisola arabica di arrivare prima a minacciare attacchi contro l’Occidente, poi a portarli a termine. Quello di Parigi è il primo attentato eseguito con successo dal gruppo in Occidente.
4. L’attacco in Francia, in particolare nella fase dell’assalto alla redazione della rivista satirica Charlie Hebdo, ha una forte componente propagandistica. L’impressione è che il messaggio di al Qaeda sia rivolto non solo e non tanto alla Francia e all’Europa, quanto al “califfo” al Baghdadi, la cui smisurata ambizione e le cui velleità egemoniche hanno messo in stato d’allerta l’interno panorama jihadista mondiale. La prospettiva che l’Occidente possa diventare il terreno in cui si sfoga la rivalità tra i due grandi attori deljihadismo è inquietante e impone ai nostri governi un serio rafforzamento delle misure di sicurezza.
5. In quest’ottica, occorre prepararsi in particolare alla protezione di obiettivi dall’elevato contenuto simbolico. Con Charlie Hebdo, gli attentatori non hanno colpito nel mucchio. Hanno preso di mira quello che per noi è un emblema della libertà d’espressione, ma che per molti musulmani resta un odioso esempio dell’arroganza e dell’irriverenza (intesa in senso negativo) degli occidentali. Con questo tipo di attacchi, i jihadistifanno opera di reclutamento.
6. Laddove lo Stato islamico va completando la propria trasformazione in un’entità simil-statuale, al Qaeda mantiene il focus sugli strumenti di guerra non convenzionali. Bombardare le posizioni dei jihadisti in Iraq e Siria può essere utile ma non è neanche lontanamente sufficiente a sconfiggere o debilitare un fondamentalismo che s’annida in ogni angolo della regione mediorientale, soprattutto in un periodo di trasversale instabilità come quello aperto dalla stagione delle Primavere arabe.
7. Allo stesso modo, le idee radicali proliferano anche nei quartieri delle nostre città, spesso quelli più degradati. Il necessario focus sulla sicurezza non deve far sì che si dimentichi l’importanza di serie politiche sociali condotte sul territorio, atte all’integrazione o al recupero dei più giovani, ovvero delle menti più ricettive rispetto al messaggio fondamentalista. Le idee non possono essere sconfitte che da altre idee.
8. Il capitolo intelligence. L’operato dei servizi francesi è stato un disastro. Nelle vicende degli ultimi tre giorni resta più d’una zona d’ombra, ma i goffi errori che sarebbero stati commessi dagli attentatori (dal civico sbagliato alla famosa carta d’identità dimenticata in auto) lasciano la sensazione che chi avevamo di fronte fossero combattenti addestrati e spietati, ma nulla di paragonabile a professionisti impeccabili. Una complice in fuga e tutti gli altri attentatori uccisi non è un bilancio che ci dà sollievo, poiché impedirà agli inquirenti di andare molto oltre nelle indagini sulla cellula del 19mo arrondissement.
9. La tracciabilità dei foreignfighters, o dei jihadisti di ritorno, resta un problema. Con ampie zone di conflitto apertesi negli ultimi anni nello scenario mediorientale, le intelligence occidentali non possono sottovalutare la necessità di una collaborazione totale con le agenzie degli altri paesi, anche laddove sussistano divergenze tra i governi.
10. Ancora, la guerra ai jihadisti non può essere condotta senza l’aiuto degli Stati arabi, al cui rafforzamento deve mirare ogni sforzo messo in campo dalle democrazie occidentali. L’attacco di Parigi riporta l’attenzione sullo Yemen, che qualcuno dei nostri leader avrebbe difficoltà a individuare su una mappa geografica. A quasi tre anni dalla caduta del regime ultratrentennale di Ali Abdullah Saleh, buona parte del paese resta fuori dal controllo delle autorità, con finanche la capitale Sana’a occupata dalle milizie sciite Houthi al soldo dell’Iran. Al Qaeda prospera nel vuoto istituzionale e uno Stato inefficiente non è in grado di aiutare le nostre intelligence. Non possiamo più permetterci buchi neri. Non nella regione mediorientale, figuriamoci ai nostri confini.