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Tutti i dogmi economici che indeboliscono l’Europa (e l’Italia)

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo “Europa, Europeismo, Euro” di Paolo Savona tratto dal libro Il liberale che non c’è, a cura di Corrado Ocone, Castelvecchi Editore. © 2015 Lit Edizioni Srl

Semmai ce ne fosse stato bisogno – perché sarebbe stato sufficiente consultare un buon libro di storia – l’esperienza dell’Unione europea conferma che l’economia non è un cemento sufficiente per un’alleanza duratura tra Stati di diversa cultura, diverse sorti, abituati a risolvere i conflitti con la forza, un tempo militare oggi economica, e non con la pazienza necessaria per far funzionare la democrazia. Una vera tragedia politica e sociale. L’alleanza economica europea ha prodotto effetti positivi dal suo primo tentativo che si sono però interrotti dal Trattato di Maastricht (1992) e dalla creazione dell’euro (1999-2002). La Comunità economica del carbone e dell’acciaio (1951) si può, infatti, considerare un successo che ha suggerito un’accelerazione della esperienza comunitaria dal Trattato di Roma (1958) in poi, inducendo a credere che si potesse fare anche un passo politico più ambizioso con l’Atto unico europeo (1987). Esauriti gli effetti positivi della spinta dovuta all’apertura dei mercati alla concorrenza, la trasformazione dell’assetto comunitario in assetto unionista è divenuto motivo di conflitto e ha suscitato forze centrifughe dagli accordi raggiunti. Coloro che avevano una qualche esperienza in materia di funzionamento delle economie dualistiche – caratterizzate da divari strutturali di produttività – non si sono lasciati trascinare dalla passione degli ideali di pace e di benessere che hanno guidato la nascita dell’Ue; questi ideali restano altamente rispettabili, ma anche facilmente falsificabili sul piano economico. Essi erano purtroppo una esigua minoranza che aveva compreso che l’architettura istituzionale ideata a Maastricht (Parlamento, Consiglio dei Capi di Stato e di governo, Commissione europea e Banca centrale europea) non poteva generare l’unificazione politica, considerata ufficialmente indispensabile perché resistesse all’impatto delle diversificazioni di cultura e di assetti giuridici nazionali. Forse gli unici ad averlo apertamente dichiarato sono gli inglesi. A questo punto dell’esperienza unitaria è chiaro che il meccanismo istituzionale non ha funzionato e le correzioni indispensabili affinché potesse sopravvivere con questa «zoppia» (assenza di unione politica) hanno richiesto lunghe negoziazioni incompatibili con la dinamica dei mercati internazionali e hanno finito col palesarsi insufficienti per affrontare l’approfondimento della crisi, soprattutto economica, per i necessari compromessi tra visioni diverse di quale società perseguire, più che tra interessi economici contrapposti. Il fatto che siano subentrate modifiche geopolitiche rilevanti – come la caduta del Muro di Berlino e l’ingresso dei colossi demografici (Cina e India) negli accordi di libero scambio (il Wto) –, sovente invocate per giustificare che l’inadeguatezza dell’architettura originaria non giustifica l’inazione, anzi accresce il bisogno di una revisione degli accordi europei raggiunti; soprattutto di compiere il passaggio indispensabile per l’unificazione politica al fine di dare all’euro – una corona senza re – uno Stato e una governance che garantisse il futuro suo e dell’intera Unione europea.

Simulare uno Stato sottraendo, come è stato fatto, la sovranità di regolare il mercato e quella monetaria e poi vincolando e assorbendo lentamente la sovranità fiscale senza generare un’unione politica è un’involuzione democratica dell’Europa che si è rivelata foriera di gravi conseguenze. Ritorna prepotente alla mente, ma anche nei fatti, il piano che il ministro del Terzo Reich Walter Funk propose nel 1936, con la non lieve differenza che esso si doveva realizzare per via militare e non economica, ma la sostanza resta la stessa. Questo piano prevedeva che la Germania fosse il Paese d’ordine dell’Europa, pretesa dei tedeschi che continua a manifestarsi; che l’industria si concentrasse in territorio tedesco, con qualche concessione alla Francia, la qual cosa si va realizzando; che le monete europee accettassero le regole imposte dal marco tedesco, un obiettivo raggiunto con la limitata dotazione di obiettivi e strumenti assegnati alla Bce e le continue opposizioni a politiche monetarie espansive in stile statunitense; e, infine, che gli altri Paesi, quindi anche il nostro Belpaese, si dedicassero all’agricoltura per garantire una buona alimentazione ai tedeschi e, aggiungiamo oggi, un luogo di belle vacanze. Il piano Funk ha tutti i tratti di ciò che sta accadendo «fortunatamente» per via economica.

Questa evoluzione può essere considerata una conseguenza naturale della perdita di visione sulle caratteristiche che deve avere la società che andiamo costruendo in Europa. Se ci domandassimo se stiamo realizzando una democrazia liberale o una socialista non sapremo dare una risposta perché si è persa ogni traccia a quale filosofia dello Stato si intende fare riferimento. Viene il dubbio che le nuove generazioni e, di riflesso, la politica non abbiano coscienza del problema o, semmai l’avessero, la rifiutano come rilevante per l’impostazione da dare all’Unione europea. Per comprendere il problema che intendo portare all’attenzione del lettore faccio riferimento a quanto accaduto in Italia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e degli Stati illiberali. Non posso che procedere per sommi capi. Si fronteggiavano due schieramenti che proponevano alternativamente la costruzione di una società democratica di tipo occidentale basata sulle libertà politiche ed economiche o una società che prometteva queste libertà, migliorate, solo dopo la sconfitta del capitalismo, ossia la proposta del comunismo sovietico. Il primo schieramento era composto da forze che intendevano far volgere il pendolo verso una società liberale e altre che volevano farla pendere verso la socialità. Il secondo schieramento, invece, per quanto se ne sappia a causa della lungimiranza del leader, Palmiro Togliatti, che ben conosceva le distorsioni del comunismo stalinista e i limiti politici posti agli Accordi di Jalta, intendeva far affermare in Italia una versione comunista moderata, formalmente aderente all’Internazionale comunista, ma di fatto più attenta alla tutela degli interessi nazionali. Una più dura lotta sindacale sarebbe stata il contrappeso per tenere sotto controllo le frange rivoluzionarie del suo Partito, che fu attuata in misura crescente fino a giungere all’Autunno caldo. Molto più articolata era invece la posizione di Antonio Gramsci, che combatteva i valori sociali imposti dalle classi egemoni e suggerì di creare un blocco di consenso su un programma che fosse condiviso da tutte le classi sociali. Le sue idee confermano che l’alveo entro il quale la società deve evolvere doveva essere oggetto di attenta analisi da parte degli intellettuali al fine di trasmetterla alla maggior parte dei cittadini come la giusta soluzione da dare all’organizzazione della società stessa. La democrazia popolare aveva per lui una vis catartica per le forze egemoni.

La sintesi delle impostazioni da dare alla società avanzata dai due schieramenti si ebbe nella Costituzione italiana del 1948, in cui il lavoro ricevette un riconoscimento e una tutela superiore al capitale, ma l’accettazione dell’economia di mercato mista privata e pubblica introduceva elementi calmieratori dell’uno e dell’altro. Invece il capitale trovò lo sbocco dei propri vincoli nell’internazionalizzazione delle economie, prima a livello occidentale e poi globale, come aveva intuito Marx, mentre il lavoro perse il senso dell’equilibrio delle rivendicazioni e, quindi, il contatto con la realtà. La scelta di costruire una società democratica era però chiara e la sua «oscillazione» verso indirizzi liberali o indirizzi socialisti venne affidata alle scelte politiche contingenti, resa però possibile solo nel mezzo secolo intercorso prima dei cambiamenti epocali succedutisi dal 1989.

Qualche obiezione può essere certamente mossa a questa interpretazione, ma non intendo approfondire le possibili divergenze interpretative, anche perché lo scopo è di segnalare che allora si discuteva su quale società si doveva puntare per via democratica, mentre oggi si accetta, in parte passivamente, il fatto che essa venga plasmata da volontà esterne al Paese, sia da parte europea, sia di un mercato globale di stampo capitalistico-finanziario. È pur vero che i vincoli esterni sono stati accettati dal Paese, ma senza coinvolgere i cittadini e, soprattutto, senza informarli delle conseguenze pratiche o dei contenuti prevalenti di ideali, li si chiami pure illusioni. La volontà popolare conta sempre meno ed è plasmata, come si è già sottolineato, dal terrore della speculazione internazionale e dalle speranze che le cose cambino in Europa. Il tema centrale della nostra società, come di molte altre, è divenuto il rispetto dei Trattati e il timore di possibili attacchi speculativi, non se la società va organizzata secondo criteri liberali o socialisti, ma quelli che il resto del mondo ci impone. I riferimenti filosofici del comunismo sono scomparsi come realtà fattuale e anche questo si è tramutato in un danno per le democrazie occidentali, perché è venuta meno la concorrenza di un sistema alternativo tanto temuta dal capitalismo, che l’aveva combattuta sviluppando il welfare senza togliere le libertà politiche. Cessato questo pericolo, il capitalismo è tornato ai suoi vecchi vizi di cosmopolitismo teso al profitto con lo sfruttamento del lavoro e la riduzione della rete di protezione sociale.

Una breve rassegna delle basi di questa involuzione delle società può partire dalla posizione liberaldemocratica espressa da Benedetto Croce e da quella socialdemocratica portata avanti da Guido Calogero. Esempi e argomenti di altri studiosi sono possibili ma, avendoli recentemente ripercorsi sotto la spinta delle tesi qui espresse, mi sono convinto che sono espressioni di una comune concezione, peraltro ammessa esplicitamente dai due studiosi. Croce sosteneva che l’habitat delle libertà, molto più ampia di quelle strettamente economiche, fosse indispensabile per una società giusta. Il dibattito che egli ebbe con Luigi Einaudi sulle differenze tra liberalismo e liberismo fornisce una chiara espressione delle sue idee in proposito. Croce e Calogero condividevano l’interpretazione di John Locke, considerato un Padre del liberalismo, che includeva tra le libertà anche il diritto all’equità; Calogero assegnava però più peso di Croce alla realizzazione di una forma estesa di giustizia sociale rispetto alle altre tre libertà del liberalismo (diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà). La prima corrente di pensiero, quella crociana, viene comunemente chiamata liberaldemocrazia, la seconda, quella calogeriana, socialdemocrazia, ma entrambe sostengono che, se la ricerca della giustizia sociale esce dall’alveo dei princìpi liberali, la società degenera. Croce affermò che i socialdemocratici ne erano pienamente coscienti e Calogero lo confermò in modo esplicito. Coloro che sottovalutarono il richiamo alla necessità di stare nell’alveo dei princìpi liberali, come i leader del centrosinistra italiano, furono travolti dalla pressione della domanda sociale – per sua natura infinita – e finirono con il far deragliare il treno della società e dell’economia; oggi stiamo pagandone le conseguenze presentando all’Europa «del rigore» e alla speculazione internazionale il fianco di un debito pubblico eccessivo e di una spesa pubblica e una tassazione insostenibili. In questo processo il comunismo italiano, che sarebbe stato il candidato naturale per guidare il distacco dalle concezioni liberalsocialiste dello Stato, ha perseguito questo fine moderatamente, contrapponendosi ad esse non in senso alternativo, ma perché i progressi a favore del lavoro erano insufficienti. Maggioranza e opposizione hanno quindi contribuito a determinare una situazione insostenibile, che le élite ritennero di poter correggere accrescendo i vincoli esterni, in particolare quelli europei, finendo con tendere una trappola alla sovranità democratica.

Le riforme richieste hanno perso ogni legame con la problematica brevemente esposta e il tutto viene liquidato con la ben nota parafrasi usata dal Presidente americano Clinton: It’s the economy, stupid!. Dietro questa frase si cela, in modo cosciente o meno, la negazione dei quattro princìpi liberali «classici», quelli enunciati da Locke e ripresi da uno stuolo di filosofi dello Stato fino alla sistemazione moderna datane nel 1971 da John Rawls: i diritti alla vita, alla libertà, alla proprietà e all’equità sono sempre più in secondo piano, incalzati da movimenti religiosi violenti, interessi economici rapaci, burocrazie fameliche sorrette dalla politica che avrebbe il dovere di controllarle e disconoscimento dei livelli di civiltà raggiunti nella solidarietà sociale.

Questo j’accuse merita una risposta che forse non arriverà mai al di fuori di un It’s the world, stupid! e non una più corretta risposta del tipo It’s stupidity, world!

Come fecero Croce e Calogero, che insegnarono ai giovani i fondamenti del liberalismo, del socialismo e della democrazia, così oggi possiamo ricostruire la nostra società, possibilmente in Europa, con la creazione di una scuola comune dove si insegnino queste cose e si educhino i giovani a pensare per quale società intendono combattere e non quale successo materiale ritengono di potersi procurare sfruttandone abilmente i difetti. Perché, come scrisse Paul Valery, le grandi civiltà sono estremamente fragili e, quindi, bisogna mantenere un forte impegno di analisi per consentirne l’evoluzione in senso positivo. Se pensiamo ai livelli raffinati raggiunti dalla civiltà egizia, cinese, greca, romana e alla loro tremenda decadenza; e in tempi più recenti se consideriamo la decadenza delle democrazie capitalistiche – il ritorno prepotente dello Stato padrone, il Leviatano di Hobbes – ci viene lo sconforto per una storia che non appare maestra di vita e un’analisi che non induce a impegnarci per contrastare il pericolo di una ricaduta nella trappola del degrado sociale ed economico. L’Unione europea è anni luce lontana da questa problematica, nonostante quasi tutti i principali Paesi membri vantino tradizioni culturali straordinarie, ma anche il primato delle tragedie belliche, che paiono voler ignorare.

Potrei, come suol dirsi, tirarla per le lunghe per tentare di convincere che non possiamo permettere che le cose continuino così. Preferisco invece affidare le conclusioni del mio richiamo insistente, che mi attendo però mostri la sua inutilità nello scuotere gli animi, alle considerazioni che il Nobel della letteratura John Maxwell Coetzee affida a un personaggio del suo Tempo d’estate: «Il pragmatismo vince sempre sui princìpi; è così che vanno le cose, l’universo si muove, la terra cambia sotto i nostri piedi; e i princìpi sono sempre un passo indietro. I princìpi sono la materia della commedia. Quando si scontrano con la realtà, generano la commedia… una cupa commedia».

Chissà se capiremo mai se la commedia è tutta italiana o anche europea.


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