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Perché è sbagliato snaturare le Popolari. Parla il prof. Giovanni Ferri

Matteo Renzi alle prese con la riforma delle Popolari? Così pare, secondo alcune indiscrezioni di stampa, dopo qualche frase sibillina del premier. Scarni o inesistenti i dettagli su come attuare le intenzioni del premier: forse l’Investment Compat in arrivo in consiglio dei ministri?

Su questo, e sulla governance bancaria, Formiche.net ha sentito uno dei maggiori esperti in Italia: Giovanni Ferri, professore di economia politica all’Università Lumsa di Roma, di cui Ferri è prorettore alla didattica.

Allora, professor Ferri, la riforma è necessaria?

Può darsi che ci sia bisogno ma non è così evidente. A livello internazionale non è che le banche organizzate come Spa abbiano avuto una performance migliore nella crisi rispetto alle cooperative, semmai ci sono evidenze del contrario. Diciamo che se c’è una certezza è che la governance cooperativa non ha fatto male.

Eppure sulla governance tipica delle Popolari si è scagliata anche Bankitalia. Perché?

Vorrei si evitasse un approccio ideologico del passato che vuole cercare la responsabilità nella governance. Ci sono stati casi di banche cooperative che hanno affrontato grosse crisi nel Regno Unito, come la Cooperative Bank che è fallita; il braccio finanziario di Natixis in Francia che ha avuto problemi, così come qualche cooperativa bancaria tedesca. Ma sono casi piuttosto isolati: se la governance cooperativa è differente lo è stata in senso positivo, ha limitato i danni.

Anche in Italia?

In Italia ci sono due tipologie di banche sotto la lente: il credito cooperativo che per natura è mutualistico e quello delle banche popolari che non sono mutualistiche pur avendo forma di cooperativa. In Italia la crisi bancaria è stata limitata fino al 2012.

Perché?

Glielo spiego: quando nel 2009 è arrivata in Europa l’ondata della crisi subprime Usa ha colpito le banche esposte prevalentemente ad attività di natura finanziaria. Molti Paesi come Belgio, Francia, Olanda, Regno Unito e Germania, per non parlare di Irlanda e Spagna, hanno dovuto sopportare costi pubblici importanti per salvare le banche. Comprensibilmente, visto che nessun governo può permettersi di far fallire una banca sistemica. Questo ha implicato un forte intervento pubblico, talora fino al 10-20% del PIL, a favore del sistema bancario, che è stato all’origine della crisi. In Italia, se si escludono gli acquisti di Tremonti e Monti bond da parte di Mps, non c’è stato intervento a favore degli istituti di credito prima della crisi. E dunque il processo è stato inverso: la crisi bancaria è nata dalla crisi sovrana.

Vuole dire che le nostre banche, anche grazie alla loro governance, sono riuscite a resistere meglio alle turbolenze?

Dal 2011, quando si è allargato lo spread tra Btp e Bund, questo si è riflesso sulle banche con perdite sui portafogli e poi con la persistente, grave recessione economica, sono cresciute ulteriormente le partite in sofferenza già in aumento dal 2008. Questo ha messo in difficoltà gran parte del sistema bancario.  E anche le banche cooperative.

Eppure la questione del voto capitario fa drizzare i capelli a Palazzo Koch…

Il voto capitario consiste nel concedere un voto per ogni testa, a prescindere dal numero di azioni che si hanno. La discussione è feroce proprio su questo. I detrattori obiettano che questo sistema produce un eccesso di autoreferenzialità per le Popolari, facendo sì che gli amministratori siano poco o per nulla responsabili nei confronti degli azionisti. Questa critica non è infondata ma bisognerebbe avere, di contro, amministratori delle Spa responsabili verso gli azionisti. E questo è messo in discussione dai fatti.

Quali fatti?

Durante la crisi CEO e AD hanno continuano a godere di bonus spropositati anche in presenza di performance tutt’altro che soddisfacenti. E questo rende l’obiezione contro il voto capitario decisamente fragile.

Dunque non si tocchi nulla?

A mio modo di vedere vi è purtroppo una pressione regolamentare a livello internazionale verso l’adozione di un modello bancario unico in cui sia contemplato il solo obiettivo di massimizzare il rendimento per gli investitori. Ma ridurre la diversità delle strutture di governance aumenta la fragilità sistemica dei vari sistemi bancari nazionali. Lo dimostra il fatto che la probabilità di entrare in crisi nel 2008 era più bassa per i sistemi bancari diversificati rispetto a quelli a modello unico.

C’è il rischio dunque di un’americanizzazione del sistema bancario italiano, che ovviamente lo snaturerebbe…

Andiamoci piano. Negli USA a fianco delle grandi banche d’investimento ci sono migliaia di Community Banks e di Credit Unions e nessuno si sogna di trasformare questa seconda parte vitale del sistema bancario americano. In ogni caso, credo che l’Europa debba puntare su un approccio indipendente verso la regolamentazione bancaria, che tenga in considerazione il capitalismo europeo fondato su un’economia sociale di mercato. Come in Germania, dove le banche cooperative e le Casse di risparmio non sono state trasformate in spa e non ci si pensa neppure. Allo stesso modo, il nostro sistema bancario rispetta il nostro sistema produttivo fatto di tantissime PMI in cui generalmente proprietà e controllo familiare coincidono. E queste PMI possono trovare la via per accedere ai capitali su mercati, ma generalmente ciò è difficile. Dunque non si può prescindere dal relationship banking.

Dunque Renzi sbaglia se intende davvero intervenire sulle Popolari?

Cancellare o modificare i modelli di governance che, come quello cooperativo, lo favoriscono è sbagliato. Rischieremmo di farci del male e spingeremmo il nostro sistema bancario a fare più finanza e ancor meno credito tradizionale. Oggi il sistema economico italiano non fa investimenti e non domanda credito, ma prima o poi il ciclo ripartirà e se noi avessimo nel frattempo indebolito il relationship banking ci troveremmo davanti a un disastro.


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