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Etruria, Ubi e Bper. Giudizi e pregiudizi su banche, regolatori e politici

Popolare di Sondrio, popolari

Si risente di nuovo la solita tiritera. Le magagne delle banche italiane come quelle che emergono dalle ipotesi dei magistrati su Ubi e dal commissariamento dell’Etruria? Colpa dell’intreccio fra credito e politica, si torna a leggere sui giornaloni. Molto bene, una tesi sempre pronta all’uso in caso di necessità quando si ha poco da scrivere (e ai giornalisti capita spesso).

Dunque, dàgli al legame tra credito e territorio. Dàgli agli istituti di credito cooperativo e alle banche popolari. Pecche, disfunzioni e inefficienze ci sono di sicuro state, ma solo negli istituti piccoli e medi? Siamo proprio sicuri?

Proprio oggi, in un intervento di certo non tenero verso il settore, Carmelo Barbagallo, capo della Vigilanza della Banca d’Italia, ha detto: “Il livello e la qualità del patrimonio delle banche locali restano più elevati della media nazionale ma le debolezze del processo di formazione del reddito, il deterioramento nella qualità degli attivi potrebbero determinare situazioni di tensione patrimoniale”.

La tiritera sul credito “politico” e “amicale” continua. Ma il credito facile a soci, amici dei soci e amici dei vertici è stata una caratteristica soltanto del credito popolare e cooperativo? Vogliamo parlare anche dei casi Zalesky?

E vogliamo pur sussurrare, come fa oggi Francesco Manacorda su La Stampa che “sono stati fatti errori in fase di negoziazione con la Bce sui criteri con cui valutare la qualità del credito”? Perché – altrimenti – non si riescono a ben comprendere le ragioni per cui le banche italiane, anche le maggiori, stiano approvando una sequela di maxi svalutazioni dei crediti che comportano la necessità di rafforzamenti patrimoniali e aumenti di capitale.

Così tra un’accusa e l’altra ai banchieri che flirtano con i politici (ma ce ne sono ancora?), magari qualche domanda su che cosa hanno fatto – o non hanno fatto – autorità politiche, monetarie e finanziarie dell’Italia, per evitare che in Europa si premiassero gli istituti che maneggiato più con la finanza e i derivati, e meno con industrie e territori, andrebbe posta.

Così come andranno chiariti i termini della sedicente bad bank (che non sarà una bad bank) in cui far confluire una parte dei crediti in sofferenza del sistema bancario. Che ruolo avrà lo Stato? E che tipo di garanzie pubbliche ci saranno per le imprese debitrici? Per il presidente dell’Abi ci sono due ipotesi da valutare: una fiscale e una legata alle garanzie.

“Un’ipotesi è di natura fiscale”, ha detto ieri Antonio Patuelli: “Perché il fisco è una variabile indipendente nell’Unione europea e nell’unione bancaria: in alcuni Paesi agevola, in altri no. Noi abbiamo cinque anni per smaltire le perdite su crediti, mentre in altri Paesi è un anno. Sarebbe un atto di giustizia e non un regalo garantire pari condizioni”.

C’è poi una seconda ipotesi, legata a garanzie pubbliche: “Finora ho sentito parlare di garanzie per le imprese e questa è una fattispecie che guardo favorevolmente – ha detto il presidente dell’Abi – Su eventuali altre garanzie voglio andare a vedere e poi esprimerò un giudizio”.

Si vedrà.

Di sicuro qualche addetto ai lavori scorge una sorta di grande scambio tra politica e banche su riforma delle dieci maggiori banche popolari e sistemazione dei crediti in sofferenza. Dietrologie? Forse. Di sicuro si nota, però, come negli ultimi giorni a dispetto di prese posizione ufficiali dell’associazione della banche popolari, alcuni capi azienda di istituti del settore – da Giuseppe Castagna di Bpm ad Alessandro Vandelli di Bper – si sono lasciati andare ad apprezzamenti per gli effetti sistemici del decreto governativo che possono innescare fusioni e aggregazioni (come quella che magari agognava per Ubi ed Mps Giovanni Bazoli, non a caso favorevole al provvedimento renziano).

D’altronde, si sa: meglio non disturbare il manovratore. Specie se è un rottamatore. Che ha un altro articolato nel cassetto, quello sulle fondazioni bancarie…



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