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Chi festeggia per l’avanzata Isis in Libia. L’analisi di Pedde

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

La Libia è nel caos, questo è certo, ma il fenomeno dell’ISIS che da settimane riempie le prime pagine dei giornali di tutta Europa deve essere ricollocato nell’ambito di qualcosa di ben diverso dalla minaccia al cuore dell’Europa che da giorni alimenta una ingiustificata psicosi.
La natura dell’operazione in corso è chiara: favorire un intervento militare “di parte”, finalizzato non a ristabilire le condizioni per la ripresa di un processo politico allargato a tutte le componenti sociali ed etniche della Libia, ma solo quelle vicine al governo di Tobruk e alle forze del generale Haftar. Ma questo conviene all’Italia?

Prima di qualsiasi altra considerazione, tuttavia, cerchiamo di capire come si sia potuti arrivare a questo punto, e di chi siano le responsabilità.
Inutile nascondersi dietro ad un falso storico. La Libia non è crollata sotto il peso di una rivoluzione interna – sebbene i sintomi del malcontento ci fossero tutti – ma in conseguenza del deliberato intervento della Francia e del Qatar, la prima alla ricerca di interessi economici, la seconda nel tentativo di rafforzare il ruolo della Fratellanza Musulmana nel Nord Africa e in Siria. Progetto fallito, quasi subito, per l’emergere di un quadro assai più complesso della politica interna, e soprattutto per la reazione dell’Arabia Saudita in Egitto e degli Emirati Arabi Uniti in Libia, che hanno fatto crollare ogni capacità di resistenza della Fratellanza Musulmana, spianando tuttavia la strada alle componenti più radicali dalla galassia salafita. E dando fuoco alle polveri che hanno poi incendiato tutto il Medio Oriente.

Una seconda, fondamentale, precisazione riguarda l’identità dell’ISIS e il suo rapporto con il suo sedicente affiliato libico.
L’ISIS, o Daesh che dir si voglia, è un’organizzazione irachena sorta dalle ceneri di una confraternita sufica (i Naghsbandi) e dai resti di alcune unità di élite delle ex forze militari di Saddam Hussein. Sono il prodotto dalla scarsa lungimiranza dell’attuale maggioranza politica sciita, che li ha sistematicamente vessati ed esclusi dal sistema politico, restituendo il favore dopo oltre quarant’anni di oppressione.
Si sono quindi riorganizzati militarmente, hanno dapprima colto le opportunità – smisurate – che il conflitto in Siria offriva per il consolidamento politico ed economico, per rientrare poi trionfalmente a casa – accolti il più delle volte a braccia aperte e non combattendo come la stampa internazionale ha più volte sostenuto – ed instaurare un fragile quanto improbabile califfato. Sostenuto da una efficace macchina mediatica concepita e gestita per impressionare gli occidentali, a suon di teste mozzate, barbare esecuzioni col fuoco e improbabili regole sociali per ristabilire una concezione medievale della Sharia.

Le milizie che in Libia si presentano oggi sotto il nome ed il vessillo dell’ISIS sono invece null’altro se non le stesse forze di quella che al secolo si chiamava l’Ansar Al-Sharia, un’organizzazione salafita radicale sorta dalle ceneri del collasso istituzionale libico per iniziativa dell’ormai defunto Mohamed al-Zahawi. Tale gruppo, sorto intorno alla charity Al-Dawa al-Islah, con evidenti legami nel Golfo, si è da subito caratterizzato per capacità di iniziativa e violenza, rendendosi responsabile di numerosi delitti, tra cui quelli dell’Ambasciatore Statunitense Chris Stevens (sebbene negato da più esponenti del gruppo) e del generale Abdel Fattah Younes, entrambi a Bengasi.

Questo gruppo, osteggiato dalla stessa popolazione della Cirenaica nel 2013 dopo aver preso d’assalto alcune moschee sufiche e quindi ritiratosi in accampamenti remoti, è tornato alla ribalta grazie all’improvvido ruolo del discusso generale Haftar, autoproclamatosi condottiero di una sorta di crociata contro le forze islamiste, che ha avuto il solo effetto di ricompattarle nel sodalizio unitario della Shura Council of Benghazi Revolutionaries, facendole tornare sulla scena più forti e determinate di prima.
Sino a quando è stato in vita il fondatore dell’Ansar al-Sharia, Mohamed al-Zahawi, l’organizzazione ha mantenuto tuttavia un profilo essenzialmente nazionale e locale. La conquista di ingenti depositi di armi un tempo nella disponibilità di Haftar, l’ingresso nel mercato dei traffici di esseri umani e di armi e il consolidamento in alcune città della costa libica, tra cui Derna e Sirte, hanno progressivamente trasformato il gruppo da milizia in vera e propria struttura politica organizzata. Capace di erogare servizi alla popolazione, e quindi da questa accettata e anche spesso apprezzata in quanto unica entità capace di alleviare i rigori di un sistema pubblico ormai collassato da tempo.

Con la morte di al-Zahawi, in un periodo imprecisato dell’ultimo trimestre del 2104 in conseguenza delle ferite riportate nel corso di un’azione, ha avuto il sopravvento nell’organizzazione la componente attratta dall’idea dell’internazionalizzazione e dalla possibilità di una “legittimazione” internazionale nel firmamento del jihadismo.
Questa trasformazione si è consumata con la mera adozione del vessillo e del nome dell’omologa struttura irachena, senza in realtà condividere con questa alcun elemento storico e ideologico.
La trasformazione si è resa possibile anche grazie al ruolo di alcuni non-libici in seno all’organizzazione, coinvolti in un altro segmento delle lucrative attività dell’Ansar al-Sharia: l’addestramento degli jihadisti. Sin dalle prime fasi del crollo dell’autorità centrale libica sono stati segnalati in Libia campi d’addestramento per i guerriglieri impegnati nei conflitti in Siria e in Iraq. Queste attività, svolte con facilità grazie all’assenza di controlli e regole, sono fiorite enormemente nel corso dei quattro anni successivi alla crisi politica del 2011, venendo progressivamente assorbite dalle milizie islamiste e trasformandosi in lucrose attività economiche.

Tra le migliaia di combattenti che si sono formate in Libia, alcune centinaia sono rimaste ad ingrossare le fila delle milizie che gestivano questi traffici, come nel caso specifico l’Ansar al-Sharia, espandendone l’attività su scala regionale e collegandola con quella del commercio di armi ed esseri umani. Ed è anche grazie a queste componenti che oggi il processo di internazionalizzazione ha avuto successo, favorendo lo scenografico quanto improbabile salto in direzione dell’ISIS.

MACABRA SCENOGRAFIA

La decapitazione dei copti egiziani sulla spiaggia, così come l’abbigliamento, gli slogan e le minacce più o meno mirate ad alcuni paesi occidentali – tra cui l’Italia – rientra quindi nel copione della linea di comunicazione che il gruppo ha inteso assumere per collocarsi nel solco della struttura madre. Con la quale, tuttavia, è alquanto improbabile ogni benché minimo legame concreto.
Certi di poter contare su un sistema occidentale dei media facilmente impressionabile e pronto alla deriva islamofobica, quindi, i comunicatori del sedicente ISIS libico hanno dato fondo al repertorio di tutte le possibili manifestazioni pubbliche in cui ne fosse percepibile un ruolo ed una postura uguale – o almeno simile – a quella irachena.
Per quanto d’effetto possano essere sull’opinione pubblica – italiana in particolare, in questo caso – le minacce dell’ISIS libico di far saltare in aria San Pietro o di portare il jihad per le strade di Roma appaiono alquanto improbabili, così come marginale è il rischio di infiltrazioni attraverso le ondate di profughi che si riversano sulle coste italiane.

Il risultato atteso è stato tuttavia conseguito. Attenzione mondiale sul fenomeno, percezione di un ruolo smisuratamente più ampio di quello effettivamente spendibile, grande riconoscimento nell’ambito del jihadismo internazionale e soprattutto definitivo successo sulle già fragili istituzioni libiche, sistematicamente delegittimate dagli islamisti, dagli Occidentali e dai loro improbabili alleati locali: il generale Haftar e l’Egitto.

Cui prodest? A molti, indubbiamente. L’avanzata dell’onda nera dell’ISIS, e la spettrale minaccia della sua imminente conquista dell’Europa serve innanzitutto la causa delle monarchie del Golfo, impegnate in un disperato tentativo di legittimare al Sisi in Egitto e Haftar in Libia come garanti laici dei loro interessi a sostegno di una sola delle parti in gioco, quella di Tobruk. Serve poi alla NATO per dimostrare che una minaccia esistenziale si annida sulle sponde meridionali del Mediterraneo (come più volte ricordato da tutti, a soli 300 chilometri da casa nostra!), dando impulso con ogni probabilità ad una nuova – e probabilmente ancora una volta del tutto inutile – operazione militare di impossibile gestione pratica sul terreno.

Rimandando sine die l’unica cosa realmente importante per la Libia: un processo di riconciliazione nazionale garantito dalla comunità internazionale, militarmente ed economicamente, aperto all’intero spettro delle forze politiche e sociali nazionali. Islamisti inclusi.


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