Articolo tratto da Nota Diplomatica
I titoli dei giornali sono mutevoli ed è facile dimenticare che la presente iterazione della violenta confusione in Medio Oriente discende dal fallito tentativo di destabilizzare la Siria di Bashar al-Assad.
Da allora ne è passato di sangue sotto i ponti. L’Isis – avendo “bucato” a Damasco – si è riposizionato da Califfato, la Russia ha dichiarato guerra semifredda all’Unione Europea e l’Arabia Saudita guerra petrolifera alla produzione americana di idrocarburi dal fracking.
Nessuna di queste iniziative sta andando come sembrava in un primo momento: l’Isis è in fase di stallo in Iraq e medita di trasferire le operazioni in Libia; la Russia si è impantanata in una troppo costosa avventura in Ucraina; il crollo dei prezzi petroliferi voluto dai sauditi non ha finora scalfito la produzione USA.
I temi si incrociano e disegnano – per ironia della sorte – un reticolo di mira proprio sopra
l’ampia fronte di Assad, fino ad ora protetto dai russi. La sua testa era infatti il prezzo che Putin non era disposto a pagare a Vienna a fine novembre quando l’Opec, sotto la “guida” saudita, ha deciso di non sostenere il prezzo del greggio attraverso tagli alla produzione, un’azione fortemente caldeggiata dai russi, che non sanno come coprire i gravi buchi economici.
I sauditi hanno sbagliato e hanno bisogno di una via d’uscita, se non è già troppo tardi. La
Russia necessita disperatamente di vedere risalire i prezzi petroliferi, al momento retti sostanzialmente solo dal milione di barili al giorno di greggio libico che mancano all’appello.
Le due parti si detestano da sempre, e probabilmente non potranno fare a meno di tentare un accordo.
Due settimane fa un influente, seppure anonimo, diplomatico saudita ha dichiarato al New York Times: “Se il petrolio può servire a portare la pace alla Siria, non vedo come il mio Paese potrebbe tirarsi indietro”. Nobile sentimento…