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Tutte le guerre diplomatiche in Libia

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Sulla Libia è stata una settimana di guerre diplomatiche, ad alta intensità, con avanzate improvvise e cambiamenti di fronte altrettanto repentini. Mentre ad un certo momento sembrava che un intervento armato contro l’IS sotto l’egida dell’Onu fosse ormai imminente, dopo che una richiesta in tal senso era stata formulata pubblicamente dal Presidente egiziano al-Sisi e pure anticipata da parte francese, tutto è stato poi riassorbito: per stabilizzare la Libia si va avanti con la diplomazia. Non certo per trattare con l’IS che rimane infatti un problema irrisolto. Il costo della stabilizzazione della Libia con un intervento armato sarebbe inaccettabile, per gli Usa e la Nato, se fosse vero che alle spalle dell’Egitto ormai si muove la Russia. Tornerebbe centrale negli equilibri del Mediterraneo: un incubo.

Sono diversi i piani di lettura necessari per ricostruire che cosa sta accadendo. In primo luogo, è aperta una riflessione critica sulla efficacia degli interventi, militari e non, effettuati dagli Occidentali nello scacchiere mediorientale: taluni volti a combattere il terrorismo Jihadista, in Afganistan; altri finalizzati ad abbattere un regime molto pericoloso per la sopravvivenza di Israele, in Iraq; altri decisi per fini umanitari, in Libia ed in Siria, per difendere le popolazioni che manifestavano contro i governi dalle reazioni brutali di questi ultimi. Infine, ci sono stati quelli volti ad eliminare le “democrature mediorientali”, regimi formalmente democratici ma profondamente corrotti e talora caratterizzati da fortissime limitazioni delle libertà civili e politiche, in Tunisia ed Egitto. In pratica, si sta facendo il bilancio dei due mandati della Presidenza Obama, della strategia del “nuovo inizio”: in termini di diffusione della libertà, tanto auspicata, e di conseguente sconfitta del terrorismo antioccidentale, allora rappresentato dal Al-Quaeda ed ora dal Califfato islamico, Is o Isil.

Sotto questo profilo, sta emergendo la consapevolezza che il terrorismo, ed in particolare l’IS, hanno trovato terreno fertile nelle situazioni di instabilità politica. E’ stato lo stesso Bernardino Leòn, rappresentante speciale del Segretario generale dell’Onu e Capo della Missione di supporto in Libia (UNSMIL) a sostenere questa tesi nel corso della riunione del Consiglio di sicurezza del 18 febbraio scorso, rilevando come in Libia l’IS abbia capitalizzato la debolezza delle istituzioni statali e del settore preposto alla sicurezza. Come ulteriore conseguenza, un afflusso di persone da fuori (foreign nationals) ne accresce la posizione dell’Is, rischiando di far assumere un’altra dimensione al conflitto in Libia. Secondo Leòn, una forte cooperazione regionale e la ricostruzione dello Stato libico sono le precondizioni per combattere il fenomeno dell’IS, che ha dimostrato capacità di reclutamento, caratteristiche transfrontaliere, significative capacità in campo finanziario e attraverso i social media.

Da questo ragionamento consegue che la instabilità, anche quella indotta dagli interventi occidentali volti ad abbattere regimi violenti ed autoritari, è di per sé un brodo di coltura per l’estremismo violento: quando manca il monopolio statale della forza, basato o meno sulla democrazia, si aprono spazi per queste incontrollabili forme di organizzazione del potere.

C’è un secondo ordine di questioni. L’Onu non ha assunto alcuna decisione formale sulla Libia, limitandosi ad un comunicato stampa in cui non si fa alcun cenno né alla ipotesi di un intervento armato prospettata dall’Egitto, né al ruolo di guida in un processo di stabilizzazione che è stato rivendicato dal rappresentante italiano intervenuto alla riunione.

Non è stata solo prudenza, ma opportunità: in contemporanea, a Washington, si apriva il “Summit internazionale per contrastare l’estremismo violento”, organizzato dal governo americano ed aperto il 19 febbraio dallo stesso Presidente Barak Obama, la cui analisi non coincide con quella prospettata all’Onu. Obama ha rivendicato la necessità degli interventi in Afganistan, Iraq e Siria, da parte di una coalizione di più di sessanta Paesi, per sconfiggere il terrorismo, sostenendo che in Siria è la guerra di Assad contro il suo stesso popolo ad alimentare la crescita dell’Isil, così come in Iraq la colpa era stata del precedente governo. Incapace di governare in maniera inclusiva, ha spianato la strada per la crescita dell’Isil. Non si nota nessun cambiamento, quindi, rispetto alla consueta analisi statunitense: quando i popoli sono oppressi ed i diritti civili negati, quando il dissenso è imbavagliato, allora si alimenta l’estremismo violento e si crea l’ambiente favorevole al terrorismo. Quando, non c’è la possibilità di un cambiamento pacifico, democratico, si alimenta la propaganda terrorista secondo cui la violenza è l’unica risposta possibile. E’ quindi una menzogna, ha affermato Obama, che si stiano combattendo i musulmani e non i terroristi in quanto tali, ivi compresi coloro che hanno posizioni antisemite: siamo tutti fratelli, ebrei, mussulmani e cristiani. Così come anche i mussulmani, pur di diversa appartenenza, sono fratelli tra di loro.

Gli Usa hanno la necessità di riprendere l’iniziativa: se di fronte al dilagare dell’Is non possono rimanere in silenzio, ci sono contesti locali ed equilibri geopolitici che sconsigliano di riprendere in considerazione gli interventi armati, soprattutto nel caso della Libia.

Vi è un’altra ragione di opportunità che ha sconsigliato l’Onu anche dal menzionare la ipotesi di un intervento armato: oggi, l’ostacolo più rilevante alla ricostituzione dello Stato libico deriva dalla divisione in due del paese, su base sia territoriale sia politico-ideologica: ci sono due parlamenti, uno laicista a Tobruk e l’altro islamista a Tripoli, che rivendicano la legittimazione a rappresentare l’intera Libia e la conseguente sovranità. L’Onu, al fine di costituire un governo di intesa nazionale, ha già ospitato a Ginevra due sessioni di dialogo tra le parti che, secondo lo stesso Leòn, potrebbe sortire risultati positivi. Un ipotetico intervento armato contro l’IS rallenterebbe il dialogo tra le parti libiche e sarebbe stato considerato ostile dalla componente islamista insediata a Tripoli, visto che l’Egitto notoriamente sostiene la componente laicista basata a Tobruk.

C’è terzo aspetto, che concerne le implicazioni geopolitiche. Un intervento militare in Libia, autorizzato dall’Onu al fine di colpire l’Is, non sarebbe altro che una prosecuzione su larga scala, nell’ambito della legalità internazionale, della legittima reazione militare degli egiziani che hanno già bombardato alcune basi dell’Is per rappresaglia, dopo che erano stati uccisi 21 loro cittadini colpevoli solo di essere cristiani copti. Se è probabile che gli eserciti occidentali metterebbero a disposizione solo mezzi aerei, le operazioni terrestri sarebbero lasciate all’Egitto, che da oltre due anni è sempre più supportato dalla Russia, anche militarmente, con un rapporto non casualmente consolidatosi appena una settimana fa, quando il Presidente Putin si è recato al Cairo, dove è stato ricevuto con tutti gli onori. Ha offerto in dono al Presidente egiziano al-Sisi un esemplare del celebre mitragliatore d’assalto AK47 Kalashnikof, simbolo di rinnvata assistenza militare, ed ha concluso un accordo per la fornitura di una centrale nucleare, che ricorda il finanziamento sovietico della diga di Assuan ai tempi di Nasser.

In queste condizioni, gli Occidentali scuoterebbero il ramo mentre sarebbero gli egiziani ed i russi a raccogliere le mele. In Libia c’è il petrolio, e fa assai comodo economicamente e strategicamente.

Se l’Is in Libia fa paura, di paure ce ne sono di peggiori. Dell’Is in Libia, al Palazzo di vetro se ne sono lavate le mani: la vera guerra diplomatica continua.


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