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Quella polvere sulle spalle della dirigenza pubblica

In un recente post su Formiche ho cercato di individuare alcuni dei punti deboli della riforma della Pubblica Amministrazione che, a mio avviso, richiedono una riflessione da parte del Governo e del Parlamento, allo scopo di mantenere saldi i pilastri della buona azione amministrativa, ovvero selezione dei migliori con modalità concorsuali e autonomia della dirigenza dalla politica contro ogni tentativo di spoils system più o meno mascherato. Resta, tuttavia, l’altra faccia della medaglia: cosa deve fare la dirigenza per essere parte attiva in un processo di riforma a favore del Paese?

Se il Paese soffre di una crisi profonda, che investe famiglie ed imprese, come dirigenti pubblici non possiamo tirarcene fuori ed non assumerci le nostre responsabilità. Va detto chiaro: nella barca Italia politici, imprenditori e burocrati (così come professionisti e giornalisti, per citarne altri) stanno assieme, ed assieme rischiano di andare a fondo. Inutile ripercorrere le decennali mancanze di certa politica o la poca voglia di rischiare di fette dell’imprenditoria italiana. Ognuno faccia i conti con la propria storia. Noi dirigenti pubblici abbiamo il dovere di difendere il nostro ruolo, soprattutto oggi che possiamo dire di non essere in cima alla lista dei simpatici. Ma, allo stesso tempo, dobbiamo guardarci allo specchio e fare quattro conti. Intanto, non siamo mai stati in grado di fare corpo e di accreditarci come forza vitale del Paese: spesso con la testa piegata su una scrivania e con lo sguardo rivolto al passato, abbiamo preferito coltivare orticelli di piccolo potere quotidiano invece di capire che le energie vanno messe assieme. Lo scambio, il mettersi in gioco, il confronto sono stati messi in secondo piano rispetto alla diffidenza dell’altro e alla resistenza al cambiamento. A prescindere, avrebbe detto qualcuno. Eppure non siamo tutti uguali: ci sono versatilità, capacità e approcci diversi che vanno messi sulla bilancia. Ma essere valutati ci ha fatto sempre paura, col risultato che tutte le vacche pubbliche sono state sempre nere, Anzi, grigie. Abbiamo accettato per anni di un sistema di valutazione comodo, forse inutile, basato su obiettivi condivisi, con la paura di avere valutazione diversificate, invece di chiedere di essere valutati nella nostra capacità di far funzionare la macchina e di relazionarci con gli attori che, in tanti, bussano alle nostre porte.

Ci siamo lamentati degli sbagli della politica, è vero: riforme poco incisive, invadenza, diffidenza. Ma non siamo stati capaci di iniziativa autonoma, impegnati in difese anche corrette e coerenti, ma senza riuscire a proporre visioni alternative di lungo respiro. Troppo spesso siamo stati chiusi nei nostri uffici, mostrando aperta diffidenza verso tutto quello che potesse farci uscire allo scoperto e guardare in faccia chi abbiamo il dovere e l’onore di servire: i cittadini. Abbiamo talvolta preferito contrattare con la politica posti e incarichi invece di pretendere che la politica decidesse sulla base di criteri chiari e selettivi, scegliendo di andarci a braccetto invece di esserne controparte leale ma autonoma. Ed infine, non siamo mai stati in grado di parlare con gli Italiani: persi dietro l’anima tutta formalistica della nostra azione, abbiamo fatto parlare per noi le carte, scritte in un linguaggio per iniziati, senza mai prendere posizioni chiare e definitive, ma parandoci dietro l’onnipresente vizio della prudenza a tutti i costi. Non sia mai che un giorno qualcuno ci venga a rendere conto di quello che abbiamo deciso! E rinunciando, così, alla possibilità di incidere realmente su quello che facciamo tutti i giorni, magari schiacciati da un sistema che disincentiva l’iniziativa personale. In una formula: ci siamo accontentati.

Non tutta la dirigenza ha peccato, come non tutti i dipendenti pubblici. E non tutti allo stesso modo. Come la buona politica e l’impresa sana, c’è la PA che fa il suo dovere, e lo fa bene. E se il Paese è rimasto a galla, un merito va riconosciuto anche a quei burocrati che hanno lavorato a tappare le falle. E, tuttavia, se abbiamo l’aspirazione di essere forza che partecipi al rilancio e allo sviluppo del Paese, non può bastare. Serve cambiare. Cambiare per non morire, perché non è più il tempo di tirare a campare. Recuperando e valorizzando tutta quella competenza, esperienza e dedizione che tanti di noi hanno da sempre messe in campo e scrollandoci di dosso quella insopportabile coltre di polvere che ha fatto il suo tempo. Alla difesa dei pilastri dell’amministrazione imparziale va affiancata la capacità di partecipare al processo di riforma, e di farlo con lo spirito giusto. Non tutte le riforme sono buone solo per il fatto di introdurre un cambiamento: e sta a noi essere in grado di non dire dei semplici no ma proporre la nostra visione di una PA al passo coi tempi, contrapponendo alle ricette dei tanti, troppi Soloni esperti delle cose di amministrazione l’esperienza di chi sta sul pezzo. Non dimenticando mai una cosa: facciamo il lavoro più bello del mondo, quello di servire.


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